Il radicamento di Radu Lupu nella sua terra non è indifferente: era nato nel 1945 a Galati, città romena al confine con la Moldavia, in una regione dove gli incontri di popoli e culture diverse ne hanno fatto la storia. Fino alla conquista romana che la segnò per sempre come la terra più orientale dove venivano parlate lingue neolatine. Bucarest, la capitale, era chiamata la Parigi dell’Est. Rudu Lupu è concittadino di altri romeni che hanno modificato la nostra visione della realtà, da Paul Celan a Emil Cioran, a Mircea Eliade, a Dinu Lipatti, a George Enescu. Quel che li accomuna è la disposizione a guardare il mondo senza dimenticare la cultura in cui si è nati. La Lingua di Celan è il tedesco. Di altri il francese. La musica a cui guardano è soprattutto quella del classicismo e del romanticismo tedesco; ma sconfinando, e con quale intensità! anche nel mondo slavo. Chopin è un punto di riferimento sia per Lipatti sia per Lupu. Questa complessa alterità che si radica in una inconfodibile percezione della vita, degli spazi aperti, delle steppe, questa alterità che è propria di chi nasce tra slavi, tedeschi e ungheresi (Bartók è un altro riferimento di Lupu), li comprende, li sente tutti, e resta altro da loro. Forse non è casuale che tra i maestri di Lupu ci siano Svjatoslav Richter e Emil Gilels, sommi interpreti del classicismo tedesco.

Radu Lupu è figura che si può difficilmente racchiudere in un ritratto preciso. Forse proprio un poeta, il gradissimo suo conterraneo Celan, ha trovato le parole più giuste per suggerirne la fisionomia: «Nel ferro rovente qui / preinterpretato Altrove (vorbeigedolmetsche Drüben) / così leggermente, dai canti di lode, / non è uno di noi saziato. / Da sei scintille qua / guidate Durezze / vengono. E niente / di superfluo». Versi difficili, a prima lettura enigmatici, ma chiarissimi se appena ci si lascia penetrare dall’intensità di un linguaggio così ellittico e sintetico. Lupu sa, o crede di sapere, che anche se non comunica concetti, la musica è linguaggio: non traducibile in parole, tuttavia. Il suo significato sta nell’inespresso dei linguaggi verbali. «La musica comincia dove finiscono le parole», diceva Debussy. E, per esempio, le relazioni armoniche possono essere una linea di interpretazione: il la minore di Mozart, rondò e sonata, accostati nello stesso concerto, a cui segue il si bemolle minore di Chopin, sonata, e due notturni, enarmonicamente affini. Ma il suggerimento è un altro: che cosa hanno in comune Mozart e Chopin se non uno sguardo lucido, senza speranza, sul niente? E tuttavia vogliono cantarlo. Il lirismo di Mozart e di Chopin sembra suggerire a Lupu un’idea, un’immagine tipica di Celan: «Die nachzustotternde Welt», il mondo dopo la balbuzie.

E non a caso Lupu tocca alcuni vertici interpretativi con Schumann, in particolare la Humoreske, Il carnevale di Vienna. Beethoven è la chiave che apre il passaggio da Mozart a Schumann, che anticipa, anche, le «durezze» di Bartók. Si arriva così a Schubert, a Brahms, e soprattutto a Schubert. Il canto si fa contemplazione raggelata del baratro, del niente. In quel raggelamento stride un «ferro rovente». Il mondo non è interpretabile, né tanto meno rappresentabile, sembra dirci Lupu, resta sempre un Altrove: si può perciò solo sentirlo, soffrirlo, «riprodurlo», forse; ma non com’è, bensì in uno specchio obliquo, che non sa restituircene la sostanza. A dirlo, sembra capace solo la musica.