«Mamma sposò la foto di papà» racconta la voce fuori campo narrante, che è quella della regista, sulla fotografia in bianco e nero della giovanissima donna con l’abito bianco e il sorriso delle grandi occasioni che dice «sì» al ritratto di un uomo racchiuso in una cornice. Ma questo matrimonio «a distanza» era il solo modo che i due avevano per stare insieme: Moussio, l’uomo, si era innamorato di Tayi, la ragazza, nelle vacanze d’estate che l’avevano riportato in Iran da Ginevra dove viveva. Gli studi di medicina gli impedivano un nuovo viaggio persino per sposarsi – come scriveva ai genitori della ragazza – passaggio però obbligato per farla arrivare lì. Così fu, e questo strano inizio della loro vita comune, segnato da una separazione di mondi, sembra già contenere quanto accadde dopo, quel capovolgersi di ruoli in cui si scontreranno culture e idee profondamente lontane.
O forse è lo sguardo di Firouzeh Khosrovani che evidenzia questo movimento ponendosi ancora una volta su quel «bordo» che ha caratterizzato la sua infanzia stavolta nel doppio ruolo di figlia e di artista. Da qui comincia Radiograph of a family, premiato a Idfa, il festival del documentario di Amsterdam nel 2020 e ora in sala: una storia famigliare, come ci suggerisce il titolo, anzi la «radiografia di una famiglia» attraverso la quale Khosrovani, nata a Tehran, che vive in Italia dove ha studiato – all’Accademia di Brera- restituisce quella del suo Paese, e a partire da una dimensione intima, il vissuto dei genitori e il proprio prova a illuminarne le molte sfumature e i contrasti , dagli anni dello scià a quelli della rivoluzione khomeinista fino a oggi.
Il padre e la madre di Firouzeh si ritrovano a Ginevra, lei però è a disagio: «spaventata e felice» si definisce, quell’uomo è più grande, vive in un paese non musulmano, come fare con il velo, la dieta e tutto il resto chiede all’imam prima di partire. Moussio ama i caffè, bere la sera con gli amici, la musica, ballare, non è religioso, piuttosto sembra esprimere una visione di modernità – che era di una parte della società iraniana, tra gli anni Cinquanta e Sessanta dello scià. Nel disagio di Tayi è invece come se ci fosse un altro pezzo di Iran, quello che poco tempo dopo si riconoscerà nel pensiero khomeinista – una trasformazione per la donna che assume il valore dii una presenza attiva nella società.

DAL RITORNO in Iran per la nascita di Firouzeh le cose infatti cambiano: è un processo che investe le abitudini quotidiane della vita famigliare, persino l’arredamento della casa, e man mano che il suo impegno rivoluzionario cresce la madre della regista comincia a esercitare nel privato la stessa repressione «esterna» verso il marito e la sua cultura «occidentale», e in qualche modo anche verso la figlia. Via la musica, i quadri, le serate con gli amici, il vino, le carte, ci sono solo preghiera e frugalità. La bimba osserva la madre distruggere le foto di sé senza velo – e ne raccoglie i pezzi, quasi a cercare di conservare qualcosa che in quel momento non può comprendere per dopo – e la sua attività che l’allontana da lei sempre più. «Aveva altre figlie, dovevo ridefinire il mio spazio» dice la voce, parlando del lavoro della madre come preside. Anche il padre scompare ma nella sua solitudine e in quel su universo che non esiste più, cancellato come le sue passioni fin a uscire dal quadro della vita lasciando però alla figlia la sua «eredità», le sue immagini, le sue storie.
Ma come ricomporre i pezzi? Khosrovani lavora sulla sua memoria, costruendo una distanza narrativa in cui si incontrano la sé stessa bimba insieme al padre e quella adulta, allargandola pian piano a una dimensione collettiva. Non sono risposte che cerca anzi la sua narrazione interroga il passato e il presente, le sue scelte, i cortocircuiti culturali sollecitando nuove piste.

«LA RIVOLUZIONE ha portato le donne fuori di casa e ha dato uno scopo, un senso alle nostre esistenze» ripete la madre felice con le amiche e le allieve della scuola. E questa presenza forte del femminile nella rivoluzione, mostrata a da magnifici e inediti archivi, è una di quelle «piste» che sorprendono il senso comune: vediamo le donne insieme felici, e con i mitra nei campi di addestramento che si preparano alla guerra. La madre di Khosrovani, le sue compagne sono donne che partecipano, che occupano uno spazio sociale: e poi cosa è accaduto, come mai la realtà dell’Iran ci appare adesso così preclusa alle donne? La conversazione intima della regista con sé stessa si fa dunque ricerca dentro la storia, in un film personalissimo che di questo confronto raccoglie la scommessa mettendosi in gioco.