La strage di Peteano avvenne il 31 maggio 1972 quando tre carabinieri rimasero uccisi dallo scoppio di una Fiat 500 imbottita di esplosivo. Un quarto restò gravemente ferito. Si trattò di una trappola: furono attirati da una telefona alle 22.35 alla Stazione dei Carabinieri di Gorizia. Una voce anonima in dialetto friulano segnalava l’auto abbandonata in un viottolo vicino alla massicciata del treno, con tre fori di proiettile tra il parabrezza e un finestrino. Tre gazzelle giunsero sul posto e all’apertura del portabagagli anteriore i carabinieri vennero investiti dallo scoppio di un ordigno collocato al posto della ruota di scorta.

IN QUEL MESE DUE VICENDE avevano segnato il corso degli avvenimenti: l’arresto il 5 maggio a Pisa dell’anarchico Franco Serantini, morto due giorni dopo per le botte ricevute, e l’uccisione il 17 a Milano del commissario Luigi Calabresi a pochi passi dalla sua abitazione.
Le indagini sulla strage di Peteano furono gestite dal colonnello dei carabinieri Dino Mingarelli, comandante della Legione di Udine, sotto la supervisione del generale Giovanni Palumbo, comandante della divisione Pastrengo di Milano. Mingarelli era stato uno stretto collaboratore del generale De Lorenzo nel 1964, tra gli estensori del cosiddetto «Piano Solo», con la predisposizione degli elenchi delle personalità politiche e sindacali da arrestare e tradurre in campi di concentramento, mentre Palumbo risultò essere successivamente un affiliato alla P2. Furono costruite ad arte piste fasulle, prima, nell’estate del 1972, per accusare Lotta continua di Trento, poi a novembre nei confronti di alcuni malavitosi locali.

Per arrivare alla verità bisognerà attendere la confessione di Vincenzo Vinciguerra della cellula nazifascista di Ordine nuovo di Udine, che il 28 giugno 1984, dodici anni dopo, davanti al giudice istruttore Felice Casson se ne assunse la responsabilità. I carabinieri avevano fatto di tutto per tenere Vinciguerra e i suoi lontani dalle indagini nonostante le vittime appartenessero all’Arma. Li protessero in ogni modo, ancor prima, quando il gruppo si rese responsabile di numerosi attentati: alla Dc, all’abitazione di un onorevole missino per far ricadere le colpe a sinistra, al monumento dei caduti nelle due guerre a Latisana, alle linee ferroviarie. Lo fecero soprattutto dopo, quando un tentativo di dirottamento di un aereo, il 6 ottobre 1972, dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari, attuato sempre da Ordine nuovo di Udine, finì con l’uccisione di Ivano Boccaccio dalla cui pistola erano stati esplosi i colpi contro la Fiat 500. Si fecero sparire i bossoli ritrovati sul luogo della strage e il rapporto che li menzionava.

IL LIBRO DI PAOLO MORANDO L’ergastolano. La strage di Peteano e l’enigma Vinciguerra (Laterza, pp. 284, euro 18), ripercorre la vicenda sulla base degli atti giudiziari e di molte testimonianze. Un prezioso lavoro, indispensabile per comprendere cosa sia stata la strategia della tensione. È anche inevitabilmente una biografia di Vincenzo Vinciguerra, neonazista non pentito, ma reo confesso allo scopo dichiarato di accusare i falsi «camerati» che avevano accettato di farsi inserire nelle «strutture dei servizi segreti» e mettersi al servizio dei «centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello Stato». Non poche le contraddizioni per chi aveva militato in Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, rendendosi a lungo latitante proprio grazie al loro aiuto. Non a caso Morando parla di «enigma».

MENTRE VINCIGUERRA è all’ergastolo, all’appello delle condanne manca Giorgio Almirante, segretario dell’Msi, che pagò con i soldi del partito la progettata operazione alle corde vocali di Carlo Cicuttini autore della telefonata-trappola ai carabinieri. Fu amnistiato.