A salvare Radio Radicale potrebbe essere il governo, lo stesso che ha deciso la sua eliminazione. Grazie ad una campagna elettorale che rasenta il surrealismo e sul filo di lana della scadenza della convenzione con il Mise (il 21 maggio), per l’ennesima volta l’esecutivo mette in scena l’evergreen gioco delle parti. Ieri infatti mentre il sottosegretario all’Editoria, Vito Crimi, in audizione in Commissione Vigilanza Rai, confermava che «nel governo non c’è alcuna volontà di prorogare la convenzione», la Lega ha depositato alla Camera un emendamento al Decreto crescita che proroga di sei mesi il contratto con Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari, in attesa di rinnovare la gara per l’affidamento del servizio pubblico mai più bandita dal 1994, coinvolgendo questa volta anche Gr Parlamento. La spesa per la proroga stimata nell’emendamento leghista a prima firma del segretario della commissione Vigilanza, Massimiliano Capitanio, è di 3,5 milioni di euro.

Poche ore prima, mentre i senatori del Pd protestavano in Aula, durante la discussione sul decreto Agricoltura, innalzando cartelli contro la mannaia del governo, Matteo Salvini ribadiva: «Io difendo la libertà di parola di tutti, anche di Radio Radicale, che è un peccato cancellare con un tratto di penna. Spazi di recupero economico ce ne sono sulla tv pubblica, con cui si pagherebbero metà delle radio italiane».

MA SE QUELLO “maggiore” si esercita in provini di democrazia, il “gerarca minore”, come lo aveva etichettato il sempre più compianto Massimo Bordin, in commissione Vigilanza ha prima tentato inutilmente di evitare la discussione sul tema – «la questione non è di competenza del mio Dipartimento ma del Mise» – poi ha spiegato i motivi per i quali la sua parte politica ha deciso di tagliare le gambe all’«organo della lista Marco Pannella». «A dicembre abbiamo fatto una proposta di proroga di un anno a 5 milioni di euro. Perché 5 anziché 10? Perché le tecnologie consentono di ridurre i costi. Non solo, voi stessi avete ribadito l’importanza di attività di Radio Radicale che non sono oggetto di convenzione. Vuol dire che l’emittente ha svolto altre attività non in convenzione utilizzando fondi della convenzione». In sostanza, sembra di capire, se Radio Radicale non avesse voluto strafare nella trasparenza – in applicazione della massima einaudiana «conoscere per deliberare» – aggiungendo al minimo sindacale richiesto anche le registrazioni dei lavori in commissione, dei convegni, dei congressi dei partiti, dei processi, delle sedute del Csm e via dicendo, non ci sarebbe stato alcun problema.

IL SOTTOSEGRETARIO all’Editoria ricorda poi che «la convenzione con Radio Radicale è frutto di un bando di gara nel ’94, in forza di un decreto legge non convertito, ma rinnovato identico subito dopo e ancora dopo. In tutto, per 17 volte, cioè 34 mesi. Se oggi uno provasse a fare una cosa del genere, ci sarebbe la sollevazione dei costituzionalisti». Motivo sufficiente, immaginiamo, per castigare chi allora vinse la gara. Quanto all’archivio di Radio Radicale, continua Crimi, «un ragionamento si può fare: alcuni colleghi hanno proposto di proseguire la digitalizzazione della parte vecchia. Questo lavoro è però oggetto di una convenzione diversa e ribadisco la massima attenzione a preservarlo. Questo archivio, però, è stato realizzato con soldi pubblici e anche la valorizzazione economica deve tener conto di questo aspetto». «So che la Rai ha fatto dei passaggi con Radio Radicale riguardo gli asset di interesse pubblico – conclude il pentastellato – ma è un’attività che svolge l’azienda. Credo che in queste scelte la politica non debba entrare per garantire la libertà del servizio pubblico».

A Crimi risponde con una nota il Cdr di Radio Radicale: «Il sottosegretario ha descritto una realtà che non corrisponde ai dati oggettivi eludendo le due questioni principali su cui il governo continua a non rispondere: perché porre fine ad un servizio pubblico di interesse generale riconosciuto dall’Agcom e dalla gran parte del mondo politico, accademico, della cultura, dell’informazione e dalla società civile; quale sarà il destino degli oltre cento giornalisti, tecnici, archivisti, amministrativi, dipendenti delle società esterne che perderanno il posto di lavoro».

MA IL SOTTOSEGRETARIO non riesce a dare risposte convincenti. Nemmeno al vicepresidente della commissione Cultura del Senato, il dem Francesco Verducci, che gli chiede anche conto dell’azzeramento del fondo per il pluralismo che assesta «un colpo micidiale all’informazione no profit, tra cui testate storiche del valore di Avvenire e il manifesto». «Azzerare questo fondo darà più forza agli oligopoli e toglierà ai cittadini il diritto ad essere informati. Il governo – denuncia il senatore Pd – vuole costringere al silenzio voci fondamentali per la nostra democrazia».