Oggi il numero di donne portatrici di un progetto migratorio autonomo è cresciuto (52,4%) e la maggior parte è consapevole che l’offerta riguarda il mercato del sesso. La prostituzione diventa, così, un fenomeno strutturale e complesso, conteso tra politiche liberali che prevedono un percorso sociale e laico, e politiche conservatrici focalizzate, esclusivamente, su interventi sanitari e di ordine pubblico. Del tema sono, però, affrontati solo gli aspetti collaterali: tratta, criminalità organizzata, malattie, migrazioni. Se è vero che nel mondo le donne rappresentano il 51% delle vittime di tratta e di queste ben il 72% è vittima di sfruttamento sessuale, è vero anche che ricondurre tutto al mercato delle donne trafficate devia le politiche alla sola assistenza della donna-vittima e alla tutela delle comunità locali.

NEL VOLUME Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink Editore, pp. 232, euro 18), la storica Laura Schettini ricostruisce da una prospettiva di genere il rapporto tra lavoro sessuale e migrazioni. Inserendo il fenomeno nel più generale quadro della storia del lavoro delle donne, l’autrice denuncia come per tutto l’ottocento e parte del novecento gli studi storici abbiano descritto gli spostamenti femminili solo come conseguenti a quelli maschili omettendo, così, di tracciare i percorsi delle donne lavoratrici che rappresentarono invece il 30-40% della popolazione migrante. Il più attento sguardo di Schettini ha seguito, invece, le rotte delle italiane che partivano già prostitute verso Malta e le coste dell’Africa mediterranea; e quelle delle donne in cerca di un lavoro diverso verso le Americhe, costrette però spesso a ripiegare nella prostituzione a causa della debolezza dello statuto del lavoro femminile.

Nel 1861 le case di meretricio, nate per tutelare la salute dei soldati delle truppe napoleoniche, collocavano migrate dalle campagne come contadine e domestiche di cui solo il 25% era straniero. Case che furono l’affare d’oro delle tenutarie ed ex prostitute europee e rappresentarono gli snodi delle rotte della prostituzione internazionale.
Il primo movimento internazionale per contrastare questa «tratta delle bianche» (utile questione morale quando si trattò di definire le identità nazionali) nacque nel 1899 ma combatteva la sola «migrazione» spingendo, così, a mettere sotto controllo i movimenti delle lavoratrici delle classi popolari.
Il volume mostra come già nell’ottocento il «paradigma oppressivo», che tendeva a considerare le europee come «giovani ingenue sfruttate» – «tratta delle bianche» (sex traffiking) – venisse contrapposto al «lavoro sessuale» di prostitute esperte (sex work).

UN NESSO quello tra lavoro femminile, migrazioni e prostituzione che condizionava le politiche migratorie dei governi e la gestione delle frontiere. Sarà l’attivista Ersilia Bronzini Majano tra il 1900 e il 1937 a denunciare che la prostituzione era dovuta alla fragilità sociale delle donne prodotta da un lavoro femminile malpagato e precario e all’allontanamento dal supporto familiare.
Oggi la prostituta migrante che si sposta per lavorare, dunque, non è una novità così come non lo sono le politiche dei governi a controllo della prostituzione e dei confini. La contrapposizione tra sex traffiking e sex workers ha le sue radici in una storia che racconta che senza dare dignità e forza al lavoro delle donne la tutela continuerà a essere costruita solo sulla «vittima» e la normativa replicherà uno stato di polizia permanente. Quindi è vero che migrazione e prostituzione sono entrambe strategie di sopravvivenza spesso intrecciate, ma non sono uguali.