Da ragazzo, alle prime letture politiche e filosofiche, fui colpito per sempre dal famoso passaggio del giovane Marx: «…l’arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso».

La mia compagna di allora mi aveva fatto conoscere le teorie femministe di Carla Lonzi, radicalmente critica anche con il marxismo. Ritenni che quell’«uomo stesso» andasse tradotto nella concreta e quotidiana esistenza di uomini e donne. Ad essi e alla loro differenza andava – andrebbe? – rivolta una teoria critica radicale.
Mi aggrappavo a quel testo – in tempi in cui intorno a me cresceva una inquietante simpatia per la critica delle armi – per sostenere che invece fosse proprio possibile sostituirla con l’arma della critica. Un’azione politica non violenta e non violenta proprio in quanto radicale.

Oggi c’è una sinistra che si definisce o viene definita radicale per distinguerla da quella moderata. E in Italia un partito che si chiama radicale. Che però in genere piace poco ai radicali di sinistra, soprattutto per le posizioni liberali e liberiste che sostiene in campo economico.

Io penso invece che su molti terreni l’azione politica dei radicali italiani vada apprezzata e anche imitata. Si parla tanto – forse troppo – a sinistra di diritti, di diritti umani. Ma a prendere questa parola sul serio bisogna riconoscere che sono soprattutto i radicali di Pannella e Bonino. La sola battaglia in difesa dei diritti di chi è condannato al carcere, molto spesso in attesa di una vera condanna giudiziaria, e vive in condizioni disumane, ne è prova e merita ogni solidarietà, proprio perché è così impopolare presso gran parte dell’opinione pubblica.
Ma anche l’impegno per la difesa dei diritti di espressione e politici nel mondo, contro regimi autoritari e dittatoriali, è qualcosa che dovrebbe essere guardata da sinistra con simpatia, con impegno comune. Così come l’invenzione di un partito «transnazionale», per quanto piccolo.

Una delle cose migliori della tradizione della sinistra di matrice operaia, socialista e comunista, era l’internazionalismo, il cosmopolitismo contrario a ogni piccola o grande patria quale chiusura nazionalistica, egoistica. Una ispirazione di cui nella pratica politica quotidiana di ciò che resta dei partiti di sinistra – moderati o radicali che siano – si vede oggi ben poco. E il discorso vale ancor di più per le organizzazioni sindacali.
Naturalmente scrivo anche sotto l’impressione delle ultime notizie sulle condizioni di salute di Pannella, della telefonata di papa Francesco, dalla ostinazione del leader radicale che fuma il sigaro in ospedale dopo un delicato intervento chirurgico e non dismette un digiuno pericoloso per la sua vita. Sono atteggiamenti che suscitano anche irritazione, dissenso.

Quando una pratica non violenta si avvicina alla violenza contro se stessi, che si traduce quasi automaticamente in una violenza contro gli altri, la discussione si apre inevitabilmente.

È giusto non abituarsi all’uso che il leader radicale fa del proprio corpo. È una provocazione che ci investe alla radice in quanto uomini e donne. Che ci interroga sul nostro rapporto tra corpo e politica, tra vita e relazioni con gli altri. Una domanda a cui non sfuggire.