Non c’è il fuoco che si accende in alto, sulle mura di Argo, ad annunciare la caduta di Troia, al principio dell’Orestea che Federica Maestri e Francesco Pititto hanno presentato a conclusione di una densa edizione, tutta al femminile, del festival Natura Dèi Teatri. Del resto non ci sono nemmeno le mura di Argo. È un paesaggio puramente mentale quello disegnato per la tragedia dai due artefici di Lenz all’interno dello spazio di via Pasubio, nella sala ora intitolata a Majakovskij ma per chi scrive legata al nome di Hölderlin e alla lunga immersione nelle tre stesure de La morte di Empedocle, sui cui muri gli interpreti avevano scritto allora tutto il testo. Sono passati quasi trent’anni. Qui lo spazio scenico è un involucro trapezoidale delimitato da quattro veli bianchi che in trasparenza, col gioco delle luci, rivelano o nascondono anche zone esterne – ma nel finale diventeranno anche la pagina su cui le divinità dell’Olimpo scriveranno le loro sentenze. Lì, dentro e fuori, si muovono tre figure incappucciate, avvolte in lunghi mantelli neri che le rendono simili a inquietanti monacelli ma poi si aprono e cadono a rivelare una quasi nudità.

CLITENNESTRA che parla come un uomo e ne esibisce anche gli attributi e dialoga con un coro che però si identifica con Ifigenia, la figlia sacrificata dal padre Agamennone che andava in guerra; e c’è una ferina Cassandra che come un animale selvaggio ulula e si dimena aspettando il macello. Forse era inevitabile che Maestri e Pititto, la regista e l’autore della scrittura drammaturgica, dopo tanto interrogarsi sull’eco lasciata dalla tragedia nella modernità (testimoniata, durante il festival, dalla lezione magistrale della filosofa Susanna Mati sul pensiero di Nietzsche) si misurassero con le sue origini. E naturalmente misurarsi con l’Orestea vuol dire anche confrontarsi con uno straordinario deposito di immagini teatrali, da Luca Ronconi alla Societas di Romeo Castellucci. Indimenticabile, per chi ne fu spettatore, resta lo scoprirsi il seno della Clitennestra di Edith Clever davanti alla spada sguainata del figlio Oreste o il suo stagliarsi grondante di sangue, in piedi in armi sul carrello avanzante per portare allo scoperto i corpi massacrati di Agamennone e Cassandra, nello spettacolo di Peter Brook.
Della trilogia di Eschilo Lenz propone una radicale riscrittura, tutta al femminile anch’essa, punteggiata dalla musica romanticamente minimale di Lillevan, video-artista e compositore elettronico berlinese, su cui a sorpresa si innestano le note di Čajkovskij per la Clitennestra di Sandra Soncini che fa la sua morte del cigno ma poi torna come un’ombra ossessiva in mezzo a quelle altre figure fantasmatiche (sono le attrici sensibili che da tempo accompagnano il lavoro di Lenz). Io sono per l’uomo, vota Atena per sciogliere il conflitto fra l’antica cultura matriarcale legata ai vincoli del sangue e il nuovo potere maschile che si impone nella polis.

MA È SOLUZIONE ambigua, che lascia più di un dubbio sul pronosticato andare liberi dalla pandemia. Non ci si libera facilmente da quei fantasmi. Lei ha fatto nero il bianco latte, aveva detto Oreste mentre rovesciava il tavolo su cui le sue parole si erano fatte immagine. Se in quel momento fosse risuonata Blue turns to grey degli Stones ci saremmo messi a piangere.