Il prossimo 10 aprile Rachel Corrie avrebbe festeggiato il 39esimo compleanno, magari proprio ad Olympia, la cittadina nello Stato di Washington dove era cresciuta e aveva studiato. E forse avrebbe continuato il suo attivismo a favore della pace e la giustizia che da giovane l’aveva portata ad unirsi all’International Solidarity Movement per sostenere i diritti dei palestinesi. La vita di Rachel, ragazza poco appariscente e riservata, invece è finita il 16 marzo del 2003, ad appena 25 anni, sotto i cingoli di una ruspa corazzata dell’esercito israeliano mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione palestinese a Rafah, nella Striscia di Gaza. Ieri i genitori e la fondazione che porta il suo nome hanno ricordato il suo impegno. Commemorazioni si sono svolte anche a Gaza dove tra un mese sarà ricordato Vittorio Arrigoni, a sei anni dalla sua brutale uccisione.

Tante cose, e tutte in peggio, sono cambiate a Gaza rispetto a quel gennaio del 2003 quando la giovane americana partì per raggiungere Rafah. Era mesi terribili, con l’esercito israeliano impegnato a demolire centinaia di case lungo il confine tra Gaza e l’Egitto durante la seconda Intifada palestinese. Morte, sangue e distruzioni erano all’ordine del giorno ma nulla lasciava presagire che qualche anno dopo Gaza sarebbe diventata di fatto una prigione a cielo aperto, controllata da Israele e dall’Egitto, in cui ora vivono richiusi oltre due milioni di palestinesi. Anche in quelle fasi tragiche pochi potevano immaginare tre grandi offensive militari israeliane contro Gaza in appena otto anni – 2008, 2012, 2014 – che hanno ucciso migliaia di palestinesi e, ancora di più, che la Striscia sarebbe diventata il terreno di scontro tra i due principali movimenti palestinesi, Fatah e Hamas.

Rachel non si considerava solo uno “scudo umano”. Più di tutto voleva documentare gli spari su civili, le distruzioni deliberate di infrastrutture e gli abusi di ogni tipo. E scriveva tanto, per tenere informata la famiglia, i suoi amici, altri attivisti su ciò che vedeva ogni giorno e anche per raccontare le sue emozioni e il senso di impotenza davanti agli eventi. La morte arrivò il 16 marzo. Assieme ad altri sei attivisti dell’Ism si era schierata davanti ai bullodozer israeliani pronti ad avanzare e a spianare alcune case palestinesi, inclusa quella di un suo amico. Indossava un giubbetto fluorescente. Come aveva fatto altre volte salì su di un mucchio di terra accatastata da una ruspa facendosi vedere dall’operatore della macchina per spingerlo a fermarsi. Ad un certo punto cadde, non si è mai saputo se a causa della pressione sulla terra fatta dal bulldozer. Finì sono i cingoli. Testimoni raccontarono che dopo averla coperta di terra il mezzo militare le passò sopra una seconda volta. Nei mesi successivi l’esercito israeliano addossò ogni responsabilità a Rachel e agli altri dimostranti. Il tribunale di Haifa ha poi sentenziato che il conducente del bulldozer non vide l’americana «che sarebbe dovuta restare lontana dalla zona pericolosa» e che la sua morte fu «il risultato di un incidente che lei stessa aveva attirato su di sé». Una versione smentita con forza dai compagni della giovane attivista.

A dare giustizia a Rachel Corrie è stata la società civile globale, elevandola a simbolo della resistenza non violenta e della lotta per la giustizia. I suoi diari sono diventati un testo teatrale “My name is Rachel Corrie”, curato dall’attore e regista britannico Alan Rickman e rappresentato ancora oggi in tutto il mondo.