Scartoffie, semplici note a piè pagina: così Rachel Bespaloff chiama le sue prime prove filosofiche. Scribacchiate di notte, «per sé sola», le sarebbero state poi sottratte dal marito che in segreto le mostrò a Daniel Halévy, che le passò a Gabriel Marcel, che le passò a Henry Gouhier, e da lui a Jacques Maritaine, a Jean Wahl…

La Parigi tra le due guerre – libera, vivace, accogliente – è il contesto di questi scritti e di questi scambi. Rachel vi arriva ventenne da Ginevra, dove la famiglia di colti ebrei ucraini ha cercato rifugio e tolleranza. Formata alla danza e diplomata in pianoforte, per il quale rivela un talento specialissimo, Rachel avvia una promettente carriera all’Opera di Parigi, dove le viene offerta la cattedra di musica e euritmica. Conosce, però, Nassim Bespaloff, lo sposa e ne ha una figlia, finendo presto per abbandonare l’Opera, sebbene mai il pianoforte.

Tra Shestov e Wahl

Nel cenacolo di esuli russi che frequenta, è l’ucraino Lev Shestov a sollecitare il suo «risveglio filosofico» e a orientarne i primi movimenti: la critica verso le pretese architettoniche della ragione, il privilegio dato all’esistenza nella ricerca del vero, l’apertura «metafisica» della storia come garanzia di libertà – temi tutti che all’epoca venivano ricondotti alla «filosofia dell’esistenza» e che avrebbero continuato a caratterizzare le riflessioni di Rachel Bespaloff anche dopo il distacco da Shestov e l’avvicinamento – un vero e proprio sodalizio intellettuale – a Jean Wahl.

Trainata da un’intelligenza acutissima e da un sicuro talento concettuale, Rachel Bespaloff legge e legge avidamente. Non la conducono interessi storiografici, ma il particolare nutrimento che trae dagli autori. I testi della filosofia sono per lei «un tesoro di incertezze» che offre «la possibilità di non soffocare» e la lettura, anziché percorso metodico, è un vero corpo a corpo esistenziale.
Tutti i suoi testi nascono da letture, sono dettati dall’urgenza di chiarirsele attraverso la scrittura o di comunicarle in lunghe lettere agli amici di Parigi (Wahl, Halèvy, Marcel, Fondane, Schiffrin) con cui si tiene in dialogo e che a Parigi sono rimasti, mentre lei ne viene strappata già nel 1930, per seguire in campagna il marito, poi nel 1942, dopo le leggi razziali, per guadagnare oltreoceano un esilio più sicuro.

Dedicati in prevalenza ad autori contemporanei e soprattutto a «filosofi dell’esistenza» – ivi compreso Martin Heidegger che legge tra i primissimi in Francia – gli scritti di Rachel Bespaloff circolano in ambienti colti e creativi, animati da esuli russi e intellettuali di matrice ebraica, gli stessi che con nuovo esilio andranno a fecondare la cultura americana e poi l’intero pensiero europeo. Alcuni testi compaiono su riviste prestigiose, altri sono raccolti in volume (Cheminements et carrefours, Parigi Vrin, 1938); negli anni dell’esilio americano spicca il suo Dell’Iliade, che avrà prima l’introduzione di Jean Wahl (da Brentano’s, nel 1943) poi quella di Hermann Broch (Pantheon Books, 1947, con traduzione di Mary Mc Carthy).

A questa affermazione importante corrispondono una produzione non copiosa e una vita faticosissima: l’intera famiglia grava sul suo impiego di docente di francese al glorioso College di Mount Holyoke. Alla sua morte – volontaria – nel 1949, a cinquanta quattro anni, il corpus degli inediti supera di gran lunga quello dei testi editi. E lentamente Rachel Bespaloff entra nella dimenticanza. Solo negli ultimi due decenni, grazie a edizioni e riedizioni, la sua figura ricomincia a delinearsi ed è la figura di una pensatrice di prim’ordine, con un profilo autonomo e una distanza forse non ancora misurata appieno con filosofe di lei più note – Hannah Arendt, Simone Weil – cui pure la collega una contiguità di esperienze e di letture.

Il piccolo densissimo saggio che esce in prima traduzione italiana con una preziosa introduzione – Rachel Bespaloff, L’istante e la libertà (traduzione e cura di Laura Sanò, Einaudi, Gli Struzzi, pp. XXXII – 81, euro 13,00) ne costituisce una prova eloquente. Deliberatamente postumo – lo termina a pochi mesi dal programmato appuntamento con la morte – il saggio si presenta a un tempo come lascito teorico e come requisitoria in una vertenza intellettuale e politica tra le più accese. Protagonista ne è Montaigne, che avanza negli abiti di filosofo dell’esistenza. Al pari delle Confessioni di Agostino, i suoi Saggi «forniscono una concezione della durata secondo la quale l’istante chiama in causa la libertà», affrontano cioè la questione del tempo in funzione di un io privo di garanzie di continuità e divenuto sensibile al costante fluire del proprio essere.

Nessuna fuga mistica è ammessa, come pure nessuna resurrezione; al carattere incompiuto del divenire, Montaigne oppone una forma di eternità tutta trattenuta nell’immanenza: è la pienezza del presente, che si attinge con l’attenzione e porta in dote il godimento, del corpo e dello spirito. Per il suo umanesimo che mira a una vita piena, il Montaigne di Rachel Bespaloff si spinge avanti verso Nietzsche, lo annuncia, («Non è forse la lezione di Montaigne che Zarathustra trasmette ai suoi discepoli quando li esorta a rimanere fedeli alla terra?») e anche lo supera, poiché non esige dall’uomo che si sacrifichi per preparare l’avvento del superuomo.

«A Montaigne può bastare l’uomo, perché lo rimette al posto che gli spetta, tra l’Essere e il nulla, tra la grandezza e la mediocrità». Questo Montaigne si allontana dai moderni soprattutto per la deliberata rimozione del tragico. Resta infatti da chiedersi quanto valga la sua saggezza nelle situazioni in cui l’uomo diventa «superfluo» e viene sistematicamente eliminato. «Si può benedire la vita senza ignorare l’atroce, e questo Montaigne l’ha fatto. Benedire la vita sui vagoni bestiame, destinati alle fabbriche di morte, è tutt’altra faccenda. Il saggio non entra in quei vagoni».

Valutazione esistenziale
L’accusa è innanzitutto politica: la sua giustizia si ferma prima del punto di fuoco, il suo equilibrio non si scompone davanti all’oppressione, la rivoluzione non è nei suoi programmi. Tra capitalismo e totalitarismo, Montaigne, «liberale puro», avrebbe forse cercato un ordine indefinitamente riformabile e un procedere senza scosse. Da qui, da questo inferno di accuse, il saggio risale in una replica difensiva incandescente, che sposta di lato e più in alto il piano del contendere: la libertà dell’istante non giustifica e non redime, non si risolve in un’azione, ma in una «valutazione esistenziale» che chiede di fare un passo indietro, di astenersi dal fare, di tenere la storia a distanza. Per Montaigne non si tratta di rifiutare l’impegno, ma di non esserne trascinato, di garantirsi la libertà «di mettere in discussione i mezzi e i fini».

Lo si può accusare di non essere nient’altro che un borghese liberale, ma occorre tener presente, conclude Bespaloff, che «La via mediana tra gli estremi spesso non è più larga di una corda tesa sulla quale si avanza per un prodigio di equilibrio. Montaigne non risponde a tutti i nostri problemi. L’abbiamo già detto abbastanza: non è disceso agli inferi. Insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno. Ed è già molto difficile».