Dove bisogna stare senza punto interrogativo, ma l’affermazione che è il titolo del nuovo film di Daniele Gaglianone scritto insieme a Stefano Collizzolli (domani in sala, per tutte le informazioni: www.zalab.org; www.facebook.com/zalab) contiene in sé la domanda di cui è la risposta. Ovvero: dove bisogna stare nell’Italia delle parate governative dei «porti chiusi» e di «è finita la pacchia», di un linguaggio «istituzionale» che ha perduto qualsiasi ritegno sdoganando razzismo, violenza, pulsioni di vendetta? Nell’Italia ghignante che sembra tutta uguale – o che almeno così viene celebrata da quel ceto politico che su paura e rancore fonda la sua crescita – razzista, cieca, indifferente? O in quella dell’afasia di chi a questo dovrebbe opporsi con fermezza e sembra invece avere perduto ogni capacità di parlare?

SI POTREBBE iniziare laddove stanno le quattro protagoniste che Gaglianone, in questo suo bel film, ha messo al centro del suo racconto, quattro donne in diverse città italiane con in comune la scelta di confrontarsi con la realtà opponendo un fare quotidiano alla demagogia diffusa. Elena vive nell’alta Val di Susa, sul confine di Bardonecchia dove i migranti cercano di passare in Francia anche quando si gela rischiando la vita. Un giorno ha ospitato Mathieu, che stava per perdere i piedi congelati nella marcia; i volontari lo hanno salvato, una volta uscito dall’ospedale non sapeva dove andare… Elena sorride e dice che rifarebbe tutto, e poi ha imparato a cambiare le bende.

LORENA è una psicologa in pensione della Asl di Pordenone, ogni giorno va in quella che chiamano la «jungle», un vecchio complesso industriale dove i migranti si rifugiano. Li sostiene, li avverte dell’arrivo della polizia, gli spiega i pericoli del luogo, il fiume per esempio. Smantella a ogni passeggiata, annotazione, ricordo la logica del «volontario buono o cattivo», che dà o soldi o non li dà, del «poverino» o della «rimozione che tutto nega» con una relazione che accetta le contraddizioni, e che anzi le mette in primo piano perché rispondono alla logica della sopravvivenza. È uno sguardo che obbliga a interrogarsi, che chiede conto delle responsabilità storiche, economiche, perché la migrazione non nasce dal nulla e la demagogia lavora invece solo sull’ignoranza.

Lo stesso accade con Giorgia attiva a Como tra permessi, richieste di documenti, e quant’altro che per questo ha lasciato il suo lavoro di segretaria, o con Jessica che a Cosenza vive in una casa occupata insieme a altri italiani e marocchini e gambiani, famiglie o singoli, bambini e adulti, ciascuno conle sue abitudini spesso difficili da far coesistere ma tutti uniti in questa occupazione – «Sono la mia famiglia» dice – a difendere un diritto fondamentale come quello della casa.

SENZA RETORICA Gaglianone le segue, le filma nella determinazione, nella fragilità, nella stanchezza, in tutti quei passaggi mai scontati di un quotidiano che richiede un continuo mettersi in gioco. E nell’ascolto di ognuna di loro, dei luoghi, dei vissuti, dei loro dialoghi interiori pone delle domande che riguardano (senza enfasi) tutti noi, e anche un fare cinema che oggi sappia essere nel proprio tempo. Non sono i migranti che indaga ma la nostra società e le sue debolezze che questa presenza illumina, ingiustizia, disparità, azzeramento dei diritti rapidamente in crescita. Quell’impegno che appare a molti come un’assurdità – «Ogni volta che mi chiedono che lavoro faccio mi fa fatica rispondere» dice Giorgia – diviene dunque la risposta possibile alla mancanza di una dimensione politica in cui riconoscersi, a quell’appartenenza collettiva perduta che qui sembra ricominciare nel gesto di pochi, o tanti, nella rete di un pensiero condiviso, in una solidarietà che nelle tensioni e nei conflitti prova a costruire un orizzonte comune di resistenza.