Lussuosa, kitsch, rumorosa e brulicante di vita: Diamond Island è il nuovo e luccicante «villaggio globale» in costruzione fatto di condomini di lusso, centri commerciali, ristoranti e discoteche che si staglia su Phnom Penh e dà il nome al film del regista franco-cambogiano Davy Chou. Visto a Cannes nella selezione della Semaine de la Critique, e realizzato col supporto del TorinoFilmLab, Diamond Island è uno dei debutti più interessanti dell’anno appena trascorso.

Dalle campagne della Cambogia arriva per lavorare alla costruzione dell’«isola», come tanti suoi coetanei, il diciottenne Bora. Il giovane protagonista sente la nostalgia di casa, di sua madre, ma Diamond Island lo abbaglia e seduce, specialmente dopo aver conosciuto Aza, con la quale scopre l’amore.
A Diamond Island Bora ritrova però anche il fratello grande, Solei, lui stesso partito anni prima alla volta della capitale e poi scomparso nel nulla. A Phnom Penh sembra aver fatto successo, gira con una bella moto e un gruppo di amici che ricordano quelli di Rusty il selvaggio. «Volevo raccontare questa storia particolare facendo riferimento ad una narrativa universale – spiega Chou – ormai abbiamo già visto centinaia di film appartenenti al genere adolescenziale, di formazione, e proprio per questo mi sembrava affascinante accostarlo a un tema nuovo, relativo a un paese che si potrebbe definire rinato».

Per il regista, appena trentatreenne, questo è il debutto nel cinema di finzione, ma nel 2012 Chou aveva già presentato alla Berlinale un documentario – Golden Slumbers – sulla memoria del cinema cambogiano fatto sparire dalla dittatura degli Khmer rossi.
E il ricordo della dittatura, o la sua assenza, è l’altro grande protagonista di Diamond Island: un evento di cui i protagonisti non sembrano avere alcuna memoria, di cui non parlano mai e la cui rimozione permea l’intero film. C’è il futuro, a cui i ragazzi di Diamond Island tendono con bramosia fatto di internet, vestiti sgargianti, il miraggio del successo. E c’è il passato, quello tradizionale rappresentato dai villaggi di provincia che i giovani protagonisti hanno abbandonato. In mezzo, un grande buco nero: il genocidio, le persecuzioni, sono un fatto di cui semplicemente si tace.Non luogo del mondo globalizzato, Diamond Island è il centro di gravità nelle vite dei protagonisti, che li attrae con la promessa di un lavoro e li seduce con il bagliore di un mondo altro. 

VISIONIritrattoIMG_6663okokokok

Il film è incentrato su una frattura tra presente passato, specialmente per quanto riguarda i più giovani.
Sappiamo dai libri e dai film che la Cambogia è un paese con una storia tragica. Tutti pensano subito al genocidio compiuto dai Khmer. Ma la cosa affascinante per me era osservare la gioventù che ha una totale amnesia storica. I più giovani, come i miei personaggi , non sono interessati ad avere un legame con il loro passato: vogliono solo «saltare» ingenuamente e felicemente in una globalizzazione che li fa illudere di essere parte del mondo intero. Non solo con la modernizzazione e la liberalizzazione dell’economia, ma soprattutto con internet. E il senso profondo del mio film risiede nel contrasto tra questo passato tragico e il candore del loro desiderio.

C’è però un momento in cui la protagonista, Aza, nomina gli Khmer rossi.
Ho cercato quanto più potevo di riflettere il punto di vista dei personaggi, e di condividere con il pubblico ciò che Bora e gli altri provano, come vedono il mondo che li circonda e il loro rapporto con la memoria. Il fatto di non menzionare mai il passato, senza quindi riflettere il mio punto di vista, era uno degli aspetti più importanti di questo processo: i ragazzi della loro età non parlano del regime. È vero che Aza fa un riferimento agli Khmer rossi, ed è l’unica volta in tutto il film: racconta a Bora che la nonna ha vissuto prima del loro avvento, quindi il regime nel suo discorso diventa niente più che un indicatore temporale. Ma allo stesso tempo in tutto ciò che dicono e fanno, e nella loro ignoranza del passato, è sottintesa la brutalità di una dittatura dopo la quale niente è più stato lo stesso.

Questo rapporto con la memoria si trova anche nel suo documentario sul cinema cambogiano.
Golden Slumbers è incentrato sulla storia della Cambogia, ma per me era fondamentale collocarlo in una dimensione attuale: per questo non utilizzo quasi per niente uso materiale d’archivio, fotografie, filmati e così via. Volevo raccontare delle storie che facessero sentire la presenza del passato nel presente.

Come è stata scelta la location di «Diamond Island»?
Negli ultimi anni ho vissuto a lungo a Phnom Penh, Diamond Island è un posto dove sono andato spesso. Non ci sono molti stranieri, perché ovviamente non è il genere di posto che vogliono visitare. Ma per me è un luogo emblematico per descrivere la vita della gioventù e la Cambogia di oggi, proprio perché riflette perfettamente l’amnesia culturale di cui parlavo. Diamond Island non sembra neanche appartenere alla Cambogia, non vi si trova alcuna traccia dell’identità del paese, ma è il luogo in cui i giovani vogliono stare. È una cosa triste e allo stesso tempo affascinante da osservare, il mio interesse era rivolto proprio a questa contraddizione.

Gli attori sono tutti non professionisti, come li ha trovati?
In Cambogia ci sono pochi attori professionisti, che comunque non sono adatti al tipo di recitazione naturale che avevo in mente. Quindi ho girato a lungo Phnom Penh , alla ricerca di persone che avessero lo stesso background sociale e la stessa personalità dei protagonisti. Ho incontrato centinaia di ragazzi in giro per fabbriche, palazzi in costruzione e locali. La prima scena che abbiamo girato è il primo appuntamento di Bora e Aza: avevo fatto incontrare i due attori raramente durante le prove perché volevo mantenere intatta la timidezza dei loro personaggi.

Da quali film è stato influenzato maggiormente?
Opere e generi diversissimi tra loro: dal cinema asiatico ai film adolescenziali americani degli anni Ottanta. In particolare ciò su cui ho fatto più ricerca, insieme al direttore della fotografia Thomas Favel, sono i lavori più innovativi degli ultimi anni nell’ambito del digitale – dato che ci sarebbe piaciuto girare in pellicola ma non era possibile. In questo senso è stato fondamentale per noi il lavoro di Michael Mann che ormai gira solo in digitale e in ogni suo film sperimenta nuove soluzioni visive. Quello che mi ha influenzato di più è Miami Vice: quando è uscito ricordo la sensazione e l’emozione di vedere qualcosa di diverso, di nuovo in termini di colori, movimenti, e anche nel modo di filmare i volti dei protagonisti. In Diamond Island ho voluto forzare i limiti, perfino sfiorando deliberatamente il «cattivo gusto» nell’uso che faccio di una tavolozza di colori intensissimi e accesi. Ci siamo ispirati alla fotografia di Spring Breakers di Harmony Korine, con il suo utilizzo di variopinte luci al neon. Ho cercato di disseminare il film anche di riferimenti non cinematografici come i videogame, i video musicali, i fumetti. Perché Diamond Island è l’impero della «falsità», è un luogo posticcio. Ancora una volta lo scopo era riflettere il punto di vista dei personaggi: quello che nella realtà è un posto molto brutto sullo schermo doveva essere vibrante, pieno di colori, di seduzione.