Un cineasta è in cerca di storie per il suo film. Si chiede che cosa dovrebbe fare, lo chiede alle persone che incontra nelle strade di Casablanca, agli operai del porto, ai passanti, agli habitués di un bar: cosa dovrebbe mostrare il cinema? Tutti rispondono la vita, la realtà, la gente comune, le loro lotte e le loro sofferenze. Il film in questione si chiama De quelques événements sans signification, e quegli aneddoti senza troppa importanza, la semplice vita, sono il soggetto della suo racconto. Girato nel 1975 con un respiro Nouvelle vague da Mostafa Derkaoui, anche se opera collettiva di un gruppo di filmmaker, attori, musicisti che si interrogavano (e interrogavano) sul ruolo dell’arte e, appunto, del cinema in Marocco in un momento di violenta repressione, dopo un breve passaggio in sala a Parigi venne censurato col divieto di essere mostrato anche all’estero finché la Cineteca catalana non ne ha curato il restauro due anni fa.

Lo abbiamo visto nella sezione del Forum «Archival Constellations» – quasi uno specchio tra opere del passato, legate all’esperienza del Forum stesso – e le tendenze dell’immaginario oggi – tra i titolo proposti c’era anche Santantango, capolavoro di Bela Tarr, appena restaurato, che proprio qui ha avuto la sua anteprima venticinque anni fa.

LE DOMANDE sollevate nel film di Derkaoui rimangono infatti attuali specie in questa edizione della Berlinale caratterizzata da una attenzione molto forte verso opere costruite intorno a un tema la cui scommessa, nei casi più riusciti, è proprio quella di trovare immagini con cui esprimere il sentimento del contemporaneo, i suoi conflitti, le sue derive inventando un cinema capace di spiazzare sé stesso (e il suo soggetto) – ci riesce magnificamente l’Orso d’oro Synonymes di Nadav Lapid.
I film mostrati al festival dunque aiutano a disegnare qualche tendenza nel cinema indipendente o sperimentale? L’osservatorio migliore per rispondere rimane il Forum, spazio dalla sua origine dedicato alle novità e alla ricerca.

Durante la Berlinale abbiamo parlato in particolare di Chao di Camila Freitas e di Earth di Nikoluas Geyhalter, entrambi pongono in primo piano il problema della convergenza della lotta politica e ambientale. Altri film hanno cercato di creare una cartografia di questo fenomeno di politicizzazione dell’ambiente così forte da presentarsi anche in situazioni inaspettate. In Khartoum Offside di Marwa Zein la lotta di un gruppo di donne sudanesi per far riconoscere la propria squadra di calcio alla federazione internazionale non sembra affatto incontrare la questione ecologica. Eppure il regista fa vedere come il luogo dove queste donne vivono, giocano, lavorano non è indifferente alla loro emancipazione di genere, in questo caso attraverso lo sport. Si tratta di aspetti appena suggeriti : un totale sulla città infestata dalle automobili, un dettaglio sui rifiuti in una bidonville.

FORSE il miglior esempio di questa tendenza a pensare l’ecologia sociale è Serpentàrio di Carlos Coinceçao. L’idea da cui parte il film è che la catastrofe non può essere combattuta perché è già avvenuta, quello che resta da fare è rendersi conto della sua ampiezza, dei suoi meandri e di ciò che ci lascia. Il protagonista è un ragazzo che a qualcuno ricorderà l’aviatore di Zabriskie Point, se non fosse che è appiedato. Forse si tratta di un suo fratello minore. Il punto del film è quello di farci perdere il senso della temporalità e di immetterci in un «dopo-tutto» da scoprire.

In qualche modo è come se l’intera selezione del Forum – e non solo – faccia riecheggiare nelle sale le questioni aperte in De quelques événements sans signification in cui tra l’altro il «documentario» si mescola alla finzione – un omicidio misterioso – che rivela pian piano contraddizioni sociali violente nel Paese. Che cosa vuol dire fare un film cosciente del proprio ruolo? Si tratta di raccontare la macchina tecnocratica, con la sua struttura opprimente e apparentemente autonoma dall’iniziativa politica? Oppure si deve andare a cercare l’individuo, con le sue storie minime, personalissime – come nel film brasiliano Rosa Azul de Novalis? Quest’ultimo può sembrare a-politico.

Orgogliosamente, il suo protagonista, Marcelo Diario, raccontandosi alla macchina da presa di Gustavo Vinagre e Rodrigo Carneiro, rivendica con fierezza di avere un’esistenza poetica e non politica. Ma quel suo descrivere nel merito certe condizioni di esistenza – in cui rientra anche come ci si prende cura di sé e del proprio piacere, racchiude l’inizio di una politica possibile e, al tempo stesso, un compito per il cinema: abbandonare i temi in generale, su cui siamo tutti d’accordo (salvare il pianeta, ridistribuire le ricchezze, ecc) per tornare a raccontare come nel disastro comune gli individui costruiscono il loro modo di esistere.

IN UNA SCENA di Nos défaites Jean-Gabriel Pèriot insieme a una della ragazze che partecipano al suo laboratorio rimette in scena un passaggio da La reprise du travail aux usines Wonder (di Pierre Bonneau, Liane Estiez-Willemont e Jacques Willemont), quando dopo le battaglie e lo sciopero le operaie della fabbrica devono riprendere il lavoro. Un «finale» di sconfitta, che sembra rimandare a quello del maggio ’68, quando il film è stato girato, e che vibra nelle parole della giovane operaia incredula, e in lacrime, perché lei lì dentro, al «prima» non vuole e non può più tornare.

Il film di Periot ha preso forma lavorando con gli studenti di un liceo a Ivry-sur-Seine tra maggio e giugno 2018. L’idea era quella di mettere a confronto i ragazzi con le lotte degli anni sessanta e settanta, le loro parole e i loro obiettivi facendoli «recitare» scene di sciopero, di resistenza, a partire da immagini cinematografiche tra cui i film di Tanner, Karmitz, Godard, Marker. Gli studenti pronunciano frasi come «la proprietà è un furto», «la rivoluzione è un’insurrezione, non è un pranzo di gala», parlano di sciopero, di violenza, di lotta di classe, di sindacato, delle disparità, del socialismo.

Poi il regista li interroga, e gli chiede il senso di ciò che hanno appena detto: cosa significa? A volte i ragazzi sembrano spaesati – una dice che il sindacato è l’associazione che difende i proprietari – in generale non hanno alcuna fiducia verso la politica, anzi se ne dichiarano totalmente distanti. Credono nelle regole – «senza sarebbe il caos» dice uno di loro – non sono affatto convinti che l’anarchia possa funzionare, condannano la violenza.
Rispetto a quanto interpretano Swann, Natasha, Ghaïs, Jackson, Julie, Rosalie, Alaa, Marine, Floricia e Martin – i protagonisti – appaiono lontanissimi, o comunque con una visione del mondo e del presente che è impossibile sintonizzare su quel passato, quasi a dirci che «le nostre sconfitte» stanno proprio in questa separatezza, in cui si colloca anche il regista, che dalla sua posizione tenta di provocarli, a sottolinearne fragilità e mancanza di una cultura politica.

SAREBBE persino un po’ irritante se non accadesse qualcosa, se la realtà cioè non irrompesse a scompigliare la costruzione del film. Sei mesi dopo il laboratorio i ragazzi occupano la scuola in solidarietà coi loro compagni arrestati e costretti a rimanere ore ore in ginocchio a Mantes – la – Jolie, le loro posizioni mutano su ciò che stanno vivendo, sulla loro battaglia. Quella generazione «fragile» ha preso la parola, il cinema si pone all’ascolto.