Theodor Adorno disse che scrivere poesie dopo Auschwitz è un atto ‘barbarico’: non impossibile, come viene spesso citato, ma barbarico. L’impossibilità di fare un film sull’Olocausto rappresenta un buon punto di partenza per un film sull’Olocausto. Il primo film dell’ungherese László Nemes, Il Figlio di Saul ha a cuore questo dubbio. Non è un film facile da guardare per vari motivi. Primo di tutti, Saul (Géza Röhrig) non è un ‘innocente’ come Benigni in La Vita è Bella o un buon Nazista come Schindler nel celeberrimo film di Spielberg. Saul è un sonderkommando, un ebreo che per sopravvivere (anche se per poco tempo) è costretto a facilitare le operazioni della macchina di morte giorno dopo giorno. Fa parte di un gruppo che scorta le vittime dai treni agli spogliatoi, raccontando loro bugie per portarli velocemente alle ‘docce’, che poi aspetta fuori, ascoltando le grida di terrore e dolore, porta via i corpi, ruba i beni, pulisce e si prepara per l’arrivo del prossimo treno. Lo sguardo del film è fisso sul viso di Saul. Tutto il resto lo sentiamo e vediamo sfocato in sottofondo, come se davanti al nostro protagonista provassimo, come lui, a non vedere ciò che gli sta accadendo intorno. Se questo fosse stato realistico, come spesso questo tipo di film viene giudicato, la prima mezz’ora del film si sarebbe dovuta ripetere quattro o cinque volte. O meglio ancora, per quattro anni. Ma dopo sei settimane, Saul stesso verrà ucciso, e qualcun altro ne prenderà il posto. Il film tuttavia deve avere una trama: ed è questo che rende tutto impossibile. Perché la narrativa ha una serie di valori – offre una morale, dà forma a una realtà caotica, un’inquadratura che va verso una chiusura, un arco. Schindler’s List dà l’impressione perversa che dalle ceneri di Auschwitz esca una storia di successo, con i 1.200 salvati da Schindler. C’erano i cattivi, ma anche i buoni e noi stiamo dalla parte di questi ultimi. La Vita è Bella è una fiaba che viene proiettata in tantissime scuole durante la giornata della memoria anche se il film fa esattamente l’opposto del ricordare. Il buon padre di famiglia nega l’Olocausto e suo figlio sopravvive come se si trattasse di una vittoria: ‘Abbiamo vinto!’ grida. E allora i 6 milioni che furono uccisi sono dei perdenti? È questo il messaggio? Dopo i primi trenta minuti del film di Nemes, la narrativa ha inizio con Saul che trova il corpo di chi crede essere suo figlio. La narrativa è incerta, ma il resto del film diventa una ‘quest’, una missione e noi ci troviamo nella posizione di chi può giudicare. Io avrei fatto diversamente, pensiamo dal conforto della sala buia. Lui non è più una vittima ma un agente. La sua missione avrà un significato anche se fallirà. E dare un significato all’Olocausto è una cosa pericolosa. Anche il nome ‘Olocausto’ è sovraccarico di significato – un sacrificio consumato dal fuoco, un rito religioso. Faceva parte della narrativa di Dio e degli uomini? Era una cosa sacra? Dare una spiegazione, una ragione alla sofferenza è una cosa naturale. Vogliamo tutti conforto quando ci troviamo ad affrontate l’orrore e i film di Spielberg e Benigni sono in fin dei conti consolatori – è per questo che li facciamo vedere ai bambini. Un vero film sui campi di morte dev’essere difficile da guardare, quasi impossibile. Il documentario Shoah di Landsmann ci si avvicina. E Il figlio di Saul anche se cade nella narrativa è cosciente del fatto che si tratta di una caduta. Saul e i suoi colleghi raccontano storie per convincere gli ebrei ad entrare nelle camere a gas. ‘C’è un lavoro per te dopo’; ‘Poi si mangia’; ‘Ricorda il numero del gancio per raccogliere i vestiti dopo’ ma loro, come noi, sanno che non ci sarà un dopo, una bella fine, una vittoria.