Di Silvio Guarnieri, intellettuale comunista, critico letterario, scrittore, esce a vent’anni dalla scomparsa il volume Cronache di guerra e di pace (a cura di Adriana Guarnieri Corazzol con la collaborazione di Giacomo Corazzol, introduzione di Pietro De Marchi, con uno scritto di Andrea Zanzotto, Manni, pp. 352, euro 21). Le prose che lo compongono, scritte nell’arco di cinquant’anni, erano apparse, smembrate, in epoche diverse. L’autore lavorava alla revisione per la pubblicazione organica in volume quando, per un incidente con la sua bicicletta, le carte rimasero sulla scrivania della sua Feltre.

Sono pagine di un’energia intatta e sorprendente. La loro odierna fecondità appare fin dal titolo, non solo perché di guerra sono tornati a oscurarsi i cieli del mondo e della stessa Europa, ma anche per una loro ambivalenza di genere. Cronache l’ha volute, con evidente sprezzatura, l’autore; «racconti» scrivono curatori e critici. Ma ci si accorge presto dell’inadeguatezza di entrambi, non riscontrando né l’invenzione propria del racconto, né la secchezza referenziale della cronaca. Saggi, piuttosto, e di una condizione assolutamente moderna, se è vero che oggi il soggetto si accampa in ogni discorso pubblico, mentre l’incombenza ossessiva del qui e del presente si ribalta in fame di realtà, cercata così nella storia individuale.

Le Cronache di guerra e di pace si snodano intorno all’indicibilità del campo di sterminio nazista. I cinque capitoli sono il rendiconto, in ordine temporale, della partecipazione di Guarnieri alla Resistenza jugoslava, allorché era direttore dell’Istituto italiano di cultura in Romania, a Timisoara; dell’incontro con l’ingegner Luigi Rozzi, liberato dai sovietici dal campo di Buna, che reca la prima notizia e ampio resoconto del lager; della visita al campo di Dachau, a guerra finita; dei suoi incontri con Monaco, Parigi, Bruxelles.

SE L’APERTURA DI PAGINA allestisce un’aria familiare, presto sottopone il lettore a bruschi spiazzamenti. Lo scarto salutare che costringe a ripensare la propria abitudine, la propria sicurezza assume dapprima la forma della sorpresa per un periodare abnorme, tanto che non raramente il periodo coincide con il capoverso e talvolta giunge ad occupare l’intera pagina. Una caratteristica che colpì il gusto dei coetanei. «Scrive lento e opaco come un bovino», indica addirittura Pavese. Il fatto è che Guarnieri, come dice acutamente di sé, è dominato da una «continua e anche ansiosa volontà di conoscenza, di comprensione dei fatti umani», dalla sua «quasi avidità di non lasciar cadere nessuno dei temi offertimi una volta e rimastimi presenti per una loro forza intrinseca». Così un personaggio, una circostanza, una caratteristica sono solo la sporgenza che impone una domanda di senso su di sé e sul soggetto che rievoca.

L’UNITÀ SINTATTICA è in questo modo costretta ad aprirsi a una sinuosa ricerca delle caratteristiche, delle cause, dei particolari, a soffermarsi a soppesare le diverse possibili valutazioni, non potendosi chiudere prima di non aver lasciato «cadere nessuno dei temi». Questa è la ragione per cui nel periodo guarnieriano la catena di subordinate, di coordinate, di riprese si sviluppa sempre in un ampio giro avvolgente.
Alcuni ritratti, come quello dell’ingegner Rozzi nel resoconto di grande potenza della vita nel lager, hanno la finezza di celebri pagine manzoniane. Agisce una cura penetrante che si esercita anche nella descrizione sociale e culturale delle città, prendendo le mosse da un gesto, un carattere colto al volo, un costume osservato nell’accompagnare gli studenti o in una consumazione al bar.
Ma la vera forza di queste pagine è nella loro grammatica concettuale, esercitata sulla mostruosità del campo di sterminio, di cui i capitoli perseguono una sorta di continuo approfondimento e allargamento, anche per il loro mettere a fuoco tempi differenti. A questo riguardo, la critica ha parlato di atteggiamento morale, qui a chiusura del volume ben esemplificata dal conterraneo Andrea Zanzotto. Però, sebbene l’ultimo capitolo, La gazzella e il leone, approdi a una sponda antropologica del male, tutto il percorso è sorretto da una risentita necessità politica.

GUARNIERI RISALE le ragioni economiche, politiche e culturali diventate vita quotidiana, senso comune, per comprendere la realtà dell’orrore del lager, le responsabilità da attribuire e il perdurare dei suoi effetti. Splendida è l’analisi dell’atteggiamento sminuente della guida tedesca che negli anni Cinquanta accompagnò a malincuore la visita a Dachau. Ma lo scrutinio non ammette indulgenze neppure verso coloro che non hanno avuto il coraggio di ammettere «quella che era stata, anche inconsciamente, una propria sia pur minima partecipazione a quella lunga catena di conseguenze».
Uno scrutinio serrato che approda a una critica radicale di tutta la società capitalistica: «un certo modello di civiltà e di costume, impostato sulla discriminazione da uomo a uomo, del dominio dell’uomo sull’uomo come propria ragione di fondo, ha in sé impliciti ogni violenza, ogni prevaricazione ed abuso», del quale il lager è la manifestazione più terribile e più chiara, «l’ultimo termine di una civiltà, il suo esito estremo».