Come già il titolo preannuncia, I misteri del romanzo Da Kundera a Rabelais, uscito per Mimesis a cura di Simona Carretta nella collana diretta da Massimo Rizzante (pp. 416, e 28,00), è un saggio, non uno studio accademico, una monografia, o il frutto di una più o meno sistematica scienza delle letteratura. Il suo autore, Lakis Proguidis, non è uno specialista del Rinascimento, né un francesista o un comparatista; è innanzitutto un amico del romanzo e dei romanzieri. La prova di questa fedele amicizia è «L’atelier du roman», rivista trimestrale che dirige dal 1993 con intatto entusiasmo. L’esule greco Proguidis (già incarcerato durante il regime dei colonnelli per la sua militanza comunista) ha fatto tesoro della lezione dell’esule ceco Milan Kundera (espulso ripetutamente – lui – dal partito comunista) incontrato a Parigi all’inizio degli anni ottanta, quando quest’ultimo teneva all’EHESS il seminario sul romanzo centro-europeo. L’impresa dell’«Atelier du roman» è quindi caratterizzata fin dall’inizio da una triplice diserzione – nei confronti delle identità nazionali, delle dottrine politiche e dei gerghi accademici. Questo è il presupposto che ha reso possibile negli anni il consolidamento di una comunità cosmopolita che utilizza il saggio e il dialogo come metodo privilegiato d’indagine sul romanzo. «L’atelier» non è ovviamente precluso agli studiosi universitari. A essere bandita è solo la postura spassionata e la pretesa di ridurre l’opera a un aggregato di concetti. Il romanzo è un’arte e come ogni arte è indissociabile da una peculiare esperienza estetica. L’atto della lettura di un concreto individuo, situato culturalmente e storicamente, è il terreno privilegiato di questa esperienza, e qualsiasi esplorazione abbia l’obbiettivo di addentrarsi negli enigmi dell’arte romanzesca, non può permettersi di abbandonarlo.
Questo principio sancisce un’alleanza tra saggio e romanzo, tra discorso non sistematico, dialogico, e complessità romanzesca. E, come Proguidis scrive nel libro, si tratta di un’alleanza storica, nata da una sorta di reciproco «posizionamento»: «Penso (…) che i Saggi di Montaigne siano inconcepibili senza l’esistenza dell’arte di Rabelais e che tra la forma saggistica e quella romanzesca esistano profonde affinità estetiche». I misteri del romanzo vuole anche essere un’illustrazione esemplare di questa affinità. Si può partire da Kundera e giungere a Rabelais (passando per Gombrowicz e Papadiamantis) solo se il risultato della ricerca non neutralizza come irrilevante il percorso che l’ha prodotto. E questo non per qualche malinteso bisogno dell’autore di mettersi in scena assieme al suo oggetto di studio o di venerare l’infinito moto dell’interrogazione rispetto al prosaico definirsi di qualche risposta. La dimensione erratica della ricerca è inerente a una comprensione che si sviluppa soprattutto nella lettura dei romanzi e nel dialogo che le opere romanzesche instaurano spontaneamente tra di esse. In altri termini, nulla illumina meglio un romanzo che un altro romanzo, a patto di dimenticare gli angusti raggruppamenti delle letterature nazionali o delle periodizzazioni manualistiche.
Veniamo ora all’argomento specifico del libro di Proguidis. Il titolo italiano gioca su un doppio significato, che chiariremo subito. Ma il titolo francese è del tutto esplicito: Rabelais. Que le roman commence! I cinque libri di Gargantua e Pantagruele, pubblicati tra gli anni trenta e sessanta del XVI secolo, costituiscono per Proguidis l’opera inaugurale non di un semplice genere letterario «moderno», ma di un inedito regime estetico, ossia di un modo collettivo e globale di rapportarsi al mondo e di situare l’esistenza umana all’interno di esso. Con Rabelais è la civiltà del romanzo che prende forma, rompendo con la civiltà della mimesis, che dalla Grecia antica in poi ha costituito la «grammatica elementare» delle forme artistiche in Europa. L’identificazione di questa discontinuità profonda implica però un lavoro genealogico, ossia quello che Bachtin ha chiamato «preistoria del romanzo». Se Rabelais è stato davvero il primo romanziere, egli deve aver prodotto con la propria opera anche la fisionomia di un nuovo lettore e di una nuova esperienza di lettura, ma perché ciò fosse possibile doveva esistere un sostrato favorevole comune, una costellazione di forme germinali che attendevano una creativa riconfigurazione.
È su questo punto che Proguidis si separa da Bachtin, affidando ai Misteri – gli spettacoli popolari e itineranti del Basso Medioevo nati in seno al dramma liturgico – il ruolo di fecondatori del nuovo paradigma estetico. I «misteri» del titolo, allora, non sono solo gli enigmi inerenti ai tratti distintivi e alle soglie storiche del romanzo, ma anche i Misteri medievali, nel significato originario di ministerium, «funzione», «ufficio», e in quello più tardo di «cerimonia», ossia di aspetto materiale e scenico di una «funzione» sacra. Insomma, non vi è romanzo senza l’incarnazione cristiana e senza il suo processo di teatralizzazione.
È su questo sfondo che la farsa, gioco di riempimento di elementi triviali nel corpo della rappresentazione sacra, trasmette al romanzo il suo fondamentale codice genetico: la concatenazione e la digressione. Proguidis lo chiama «binomio romanzesco», ed esso definisce una relazione costitutiva «– ossia non fusionale, non armonica, e non dialettica – tra la necessità e il caso, tra l’imperativo della forma e l’imperativo del caos, tra il logos e l’irrazionale, tra la narrazione che è sempre mimetica e la digressione arbitraria».
Tocchiamo qui il nucleo dei Misteri del romanzo, che ci rivela pagine straordinarie sul rapporto che il romanzo intrattiene con i Tempi Moderni e con l’avvento dell’uomo progressista, ossessionato dal futuro e dalle «magnifiche sorti e progressive». A partire da Gargantua e Pantagruele il romanzo è coestensivo al carattere dell’uomo progressista, in quanto di esso fa il proprio terreno prediletto d’esplorazione, e nello stesso tempo costituisce una risposta, anzi un’alternativa alla sua volontà di controllo e ordinamento. «L’uomo progressista è sempre di passaggio, sempre chiuso in una stanza priva di finestre. (…) Il suo presente è un buco nero dove il tempo sparisce». Il romanzo, allora, gli ricorda che «il presente è farcito di presente». «Attraverso divagazioni, deviazioni, biforcazioni senza fine, irruzioni del caso, situazioni umane che si incastrano l’una nell’altra».
Se Proguidis ha ragione, se il romanzo da Rabelais a oggi è un commutatore temporale, in grado d’iniettare l’inesauribilità del presente dentro la vita perennemente in fuga dal presente dell’uomo progressista, allora difficilmente possiamo convincerci che il romanzo è morto. La sua vitalità non può essere dissociata da quella dell’uomo progressista, che nonostante l’addensamento di nuvoloni sempre più bui all’orizzonte, non vuole rinunciare in alcun modo alla sua forsennata marcia in avanti.