Negli anni Settanta in Giappone ci si poteva imbattere nelle strade in gang di sole ragazze, le cosiddette sukeban. Giovanissime e famose per nascondere tra i vestiti lame, rasoi e catene, indipendenti dalla malavita organizzata della yakuza, le sukeban erano la risposta criminale alla marea femminista che investiva tutto il mondo. Ragazze arrabbiate, ma almeno arrabbiate insieme, che parlavano la lingua del crimine e della violenza ma anche quella tutta nuova della liberazione del corpo femminile.
«Trascorrere momenti così piacevoli tra sole ragazze mi regalava uno strano senso di onnipotenza» dice Aoi, protagonista di Non è un lavoro per ragazze, romanzo di Sakuraba Kazuki (traduzione di Anna Specchio, e/o) che racconta l’esperienza efferata di due tredicenni, Aoi e Shizuka, alle prese con storie familiari tanto cruente da doversi risolvere con un patto assassino. Le vicende le apprendiamo dalla viva voce di Aoi stessa, con il timbro assoluto della giovinezza che non vede sfumature, di chi ha bisogno dello scontro con gli adulti per aderire alla propria visione del mondo.

LA VITA DI AOI è funestata da un patrigno alcolizzato e brutale e una madre troppo stanca per vedere o reagire. Il mondo che la accoglie e che lei stessa abita volentieri è quello conchiuso delle amiche che si fanno spalla reciprocamente, con una lingua che è solo loro e delle regole che gli adulti non ricordano più. La tredicenne vive su un’isola al largo di Shimonoseki, l’unica grande città raggiungibile solo da un ponte. Il punto di ritrovo per tutta la varia gioventù dei dintorni è il McDonald’s appena aperto. Quel fast food è di fatto l’unico spazio scenico abitato dai personaggi oltre alla scuola, dove Aoi e le sue amiche agiscono secondo ruoli ben definiti, in un corpo omogeneo di ragazze in divisa scolastica.
La scrittura di Sakuraba tende a un ritmo che si fa incalzante man mano che la narrazione ci scorre davanti, quasi seguissimo l’azione su uno schermo. Non è un caso del resto che la scrittrice si sia formata sulla fanfiction e i videogiochi, e le sue pagine hanno proprio quest’impostazione.

LO STESSO AMBIENTE della cittadina di mare, affollata in estate ma desolante nel freddo inverno della costa affacciata sul Mar del Giappone, è lo sfondo sul quale le protagoniste si muovono, in un moto continuo di rimbalzo tra le luci di Shimonoseki e l’opacità della vita isolana. L’incontro di Aoi con Shizuka è il catalizzatore del conflitto: anche lei ha bisogno di un aiuto contro la famiglia che solo Aoi le può dare. Questo sodalizio si stringe al di fuori della scuola, dove Shizuka non indossa più la divisa, e può finalmente trasformarsi in una gothic lolita con gonna nera a palloncino e calze scure, abbandonando quella tenuta grigia e scialba che la società ha deciso di imporle per assumerne un’altra che non passa inosservata. Come Gogo Yubari, la diciassettenne assassina del Tarantino di Kill Bill, anche Aoi e Shizuka indossano la stessa uniforme scolastica anno dopo anno. Al cinema, però, quel non-look diventa sexy, giovane e violento – l’esperienza delle bande sukeban porterà grandi successi in Giappone con un filone di film di genere exploitation chiamato Pinky Violence, in cui sono proprio le ragazze delle bande a recitare. Per Aoi e Shizuka invece quella rimane una divisa da confinare entro le mura scolastiche. Sarà durante le vacanze che le due prenderanno coscienza e si faranno forza per mettere a punto i propri piani di rivalsa: in quel periodo, infatti, la divisa finisce nell’armadio e ci si riappropria delle proprie individualità.

L’UNIONE di queste due ragazzine sancirà la fine di un mondo maschile di soprusi nel modo più atroce che si possa immaginare. Questo vincolo femminile e sotterraneo che si suggella con una promessa di morte – un potere e un legame che, come diceva la scrittrice Enchi Fumiko, appartengono alle donne da sempre. È Shizuka a spingere Aoi a compiere un gesto fatale ma, nella migliore tradizione drammatica giapponese, Aoi sentirà una forza oscura e superiore ad animarla mentre si compie il suo destino.
Da mille anni, da quando la letteratura era appannaggio delle dame di corte, l’ikiryo, la possessione di uno spirito femminile, è uno strumento narrativo fortissimo la cui eco si è diffusa anche nelle narrazioni contemporanee: è con l’ikiryo che lo spirito di una donna viva può manipolare e controllare il corpo e la volontà di un’altra. E così, pur senza ricorrere al soprannaturale, Sakuraba mette in scena uno scontro di volontà in cui una ragazza sembra soggiacere all’altra fino all’epilogo sorprendente, anche se annunciato: «In seconda media, a tredici anni, la sottoscritta Onishi Aoi ha ucciso due persone. Una durante le vacanze estive, l’altra durante quelle invernali. Nel farlo, ho capito che uccidere non è un lavoro per ragazze».