Che sia un auspicio l’ottimismo di Angela Fumarola e Fabio Masi? I direttori di Inequilibrio chiudono il festival convinti di raddoppiare gli spazi di creazione e allestimento. Ma visto lo scossone che sta subendo la Toscana festivaliera, dalla Volterra di Punzo alla Chiusi di Cigni, liquidati senza preavviso dalle rispettive amministrazioni, il futuro è in mano al Comune di Rosignano Marittimo, che dovrà ricollocare le attività di Armunia, dopo la chiusura di Castello Pasquini e lo smontaggio dell’adiacente tensostruttura.

Perché ciò che compare nel cartellone del festival di Castiglioncello è quasi sempre l’esito di residenze artistiche ospitate lungo tutto il corso dell’anno. Lo è stato per il fitto programma del ventennale, tornato a insistere sul dialogo tra movimento e parola, nell’ennesimo tentativo di togliere ogni separazione tra danza e teatro o renderli contigui e dialoganti.

L’esposizione estrema dei corpi di Silvia Gribaudi che smonta omologazione e luoghi comuni, con i virtuosismi di un’ironica «donna cannone» (la R.Osa di Claudia Marsicano) e le prestazioni ginniche di Domenico Santonicola in What age are you acting?, sottile distruttore della sua stessa decadenza fisica.
Fino all’opposto incarnato dalla disperata bellezza del gioiello coreografico di Abbondanza/Betoni, La morte e la fanciulla, con l’adesione totale di Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Claudia Rossi Valli, sulle strazianti note dell’omonimo schubertiano.

Intorno a un corpo morto si gioca Gul – uno sparo nel buio, prima uscita del progetto di Gemma Carbone che scava nelle sue origini svedesi per raccontare nella forma del giallo (ne firma il testo anche Giancarlo De Cataldo, già autore dei produttori leccesi di Koreja) l’assassinio di Olof Palme, primo ministro socialdemocratico, nel 1986. Un mistero internazionale che segna un prima e un dopo, alla stregua del nostro Aldo Moro.

E sono anime straziate, tante e disperate, i cui corpi incontra il Luciano di Danio Manfredini, tristissimo travestito, poeta vagante tra marchettari disperati e clienti dediti al turpiloquio. E in chiusura Il cantico dei cantici di Roberto Latini, un abisso di amore assoluto.
Gli antichi versi sacri, attribuiti a Salomone, svuotati di ogni valenza religiosa e riempiti di citazioni e riferimenti contemporanei. L’attore incanta col suo corpo-voce che si fa maschile e femminile, androgina visione assunta da Leo de Berardinis per il suo Cantico, in un desiderio irrefrenabile di scoperta fanciullesca. Declamante e grottesco dj radio, si zittisce quando alza il «telefono di Cocteau», mentre il suono di Giuanluca Misiti recupera la Carrà mixata per La grande bellezza. E siamo alla consapevolezza di C’era una volta in America e  all’autoironia. «Che peccato».