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Quibi, anche nelle pause

Quibi, anche nelle pauseMeg Whitman

Intervista Jeffrey Katzemberg e Meg Whitman presentano la piattaforma di microprogrammi

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 21 marzo 2020
Luca CeladaLOS ANGELES

Sullo sfondo della proliferazione definitiva delle piattaforme e di una offerta sempre più mastodontica, apparentemente in grado di saziare anche il più ingordo degli appetiti, si prepara il debutto di un format che ambisce a «rivoluzionare la fruizione della fiction seriale» e salvare – nientemeno – l’impianto produttivo hollywoodiano da un futuro sempre più incerto.

Quibi che debutterà il 6 aprile in Usa e Canada anglofono, prima di un espansione globale (o almeno i «20 maggiori territori»), sarà piattaforma streaming dedicata alle fiction con episodi della durata massima di 10 minuti, come dovrebbe indicare il nome (contrazione di quick bytes).

Le mini puntate che popoleranno la schermata menu saranno di tre categorie: fiction, reality e doc e news. Per quanto riguarda la fiction l’idea è di proporre narrative seriali in pillole fruibili su cellulare da un target assai specifico di 25-35enni. «La nuova televisione e quella che tutti abbiamo in tasca» spiega Jeffrey Katzemberg, leggendario produttore, manager alla Paramount, Disney e infine Dreamworks Animation che lancia l’idea come evoluzione naturale dello storytelling.

«Durante la nostra giornata tutti abbiamo degli scampoli di tempo di 5, 10 minuti in cui di vedere qualcosa di bello», prosegue Katzemberg, uno dei massimi capitalisti di Hollywood, che si propone di riempire – e monetizzare – gli «spazi morti» della giornata (se per caso ne fossero rimasti alcuni in cui, vedi mai, non avessimo ancora gli occhi incollati al mini schermo).

Per farlo ha stretto accordi di produzione con tutte le Majors (che hanno sottoscritto anche per tentare di arginare il dilagante Netflix). Gli studios verranno pagati per produrre i mini programmi in licenza per una finestra limitata dopo la quale recupererebbero i diritti degli stessi. È una struttura commerciale che ricalca quella che regolava rapporti fra studios e networks ai tempi d’oro della televisione americana, prima dell’avvento del cavo e del digitale, quando sfornava sitcom e telefilm in syndication in mezzo mondo.

Una scommessa da un miliardo di dollari per contrastare l’emorragia di ascoltatori (soprattutto giovani) verso streaming e social, a cui partecipa mezza Hollywood (più soldi cinesi e del colosso della distribuzione WalMart). Ora del lancio saranno disponibili 100 ore di contenuti compresi progetti affidati ad Antoine Fuqua, Stephen Spielberg, Guillermo Del Toro, Ben Stiller, Jennifer Lopez e Tom Cruise.

Tutti programmi originali perché spiega Katzemberg non basta rimontare un Game of Thrones e trasmetterlo in bocconi di 10 minuti, ma occorre scrivere e girare con il format in mente. La formula prevede due fasce di abbonamento, con e senza pubblicità (rispettivamente per $5 e $9 dollari mensili) e anche la frequenza di diffusione sarà mista: pubblicazione periodica degli episodi (giornaliera o settimanale) ma con la possibilità di visione consecutiva una volta che gli episodi saranno online, un formato che permette il bingeing ma allo stesso tempo promuove, sempre secondo Katzemberg, il senso di anticipazione che avevano i «film del lunedì» che diventavano oggetto di entusiasmo e conversazione collettiva.

Come ogni piattaforma Quibi è figlia ibrida di Hollywood e Silicon Valley e per garantire le credenziali tech al timone c’è anche Meg Whitman già direttrice di Ebay e Hewlett Packard (nonché in passato candidata repubblicana a governatrice California). Abbiamo incontrato i due manager a Los Angeles.

Volete innovare ma con un pizzico di nostalgia, sembrerebbe?
Jeffrey Katzemberg: Alla fine anni ’80, inizio anni ’90 i network e il loro modello di televisione commerciale erano all’apice. I programmi del momento erano Friends, ER e compagnia bella. Poi è arrivata una cosa che si chiama Hbo col loro slogan «Non è tv. È Hbo». Non era necessariamente una denigrazione, semplicemente si stavano differenziando da ciò che era stato prima. Hanno eliminato la pubblicità, hanno eliminato le costrizioni di durata e contenuti degli episodi con materiale che non avrebbe potuto passare via etere per via del linguaggio, sesso e violenza.
Così facendo hanno rivoluzionato la fiction con serie come Sex and The City, Sopranos e The Wire. Allo stesso modo Quibi non vuole essere semplicemente una ‘emittente di cortometraggi’. Ne vogliamo essere Facebook, Instagram, Snapchat o Youtube. Loro fanno benissimo quello che fanno ma noi aspiriamo a creare un nuovo tipo di fiction, una narrativa in grado di applicare la qualità e capacità produttiva di Hollywood ad un nuovo format.

Meg Whitman: Quello che stiamo cercando di fare è di unire il meglio di Hollywood al meglio di Silicon Valley. Le nostre pillole di contenuto sono mirate alla fascia dai 25 ai 35 anni, quelli che non guardano più la TV, e per questo la piattaforma sarà tutta su telefonia mobile. Netflix è una ottima soluzione per quando torni a casa, ti rilassi e vuoi investire un’ora, ora e mezza davanti alla TV. Noi siamo diversi e complementari. I programmi saranno pensati per una fruizione soprattutto diurna, per quella fascia che nei ritagli di tempo sta già guardando clip su Youtube o usando videogiochi e canali social. A loro mireremo contenuti di altissima qualità.

Chi garantirà il volume produttivo necessario?
MW: Prevediamo la visione al bar o sui trasporti pubblici e puntiamo a diventare la prima piattaforma di visione mobile al mondo. Le otto major hanno investito nel nostro progetto e soprattutto messo a disposizione i loro migliori talenti per produrre contenuti. Sarà un’opera collegiale, nessun singolo studio sarebbe in grado di produrre il volume di contenuti necessario, ne esiste alcun catalogo acquistabile. Quindi li abbiamo arruolati per creare contenuto interamente originale, in particolare quelle serie che chiamiamo lighthouse, fiction di grandissima qualità che non hanno alcun precedente.

JK: Vi faccio un esempio, Steven Spielberg che è un vecchio amico ha accettato di fare un po’ il nostro consulente. Dopo aver incontrato il tema mi ha mandato un trattamento di sei pagine per una serie thriller che ha chiamato After Dark e l’idea geniale è che si possa visionare solo quando fa notte. Naturalmente i telefoni sanno dove si trova lo spettatore, a che ora tramonta il sole in quella località. La visione della serie verrà abilitata solo quando fuori fa buio, per renderla ancora più paurosa.

Tutto in mini puntate?
JK: Per noi una serie durerebbe complessivamente due o tre ore, simile ad un film, ma presentato in capitoli di meno di 10 minuti l’uno. Quindi cortometraggio non è una definizione esatta, semmai lungometraggi in capitoli. È una forma simile a quella dei romanzi che in genere hanno capitoli di 20-40 pagine. E la ragione è che quando leggi un libro dopo mezz’ora in media al lettore si stancano gli occhi, è naturale. Il Codice Da Vinci è un romanzo di 464 ma ha 105 capitoli, di solito di appena cinque pagine. E Dan Brown ha dichiarato di averlo scritto così perché sa che i suoi lettori spesso hanno meno di mezz’ora a disposizione per volta. È anche il nostro modello, cioè di unire due tipi di narrativa filmata ben sperimentati: i film che durano un paio d’ore e i programmi tv che in America per settant’anni sono stati trasmessi inframezzati di pubblicità. Non stiamo inventando nulla, semmai trovando applicazioni nuove a tecniche ben note a Hollywood. Vi sono state due forme prevalenti di racconto audiovisivo: 2 ore e un’ora. Credo che il prossimo stadio saranno i 10 minuti.

Quali sono stati gli ostacoli tecnici?
MW: Abbiamo dovuto progettare una piattaforma con funzionalità del tutto nuove. Per esempio i telefoni operano sia in modalità ritratto che panorama. La gran parte del contenuto è ovviamente girato in orizzontale, ma quando si impugna il telefono spesso lo si tiene verticalmente. Questo pone il problema di come ottimizzare la visione e fino ad oggi questo comportava sacrificare due terzi dello schermo. Quindi abbiano dovuto trovare soluzioni specifiche a partire dalla produzione alla post produzione, un problema ingegneristico non indifferente.

Cosa vi fa pensare che vi sia ancora mercato per gli abbonamenti con tanti contenuti disponibili gratuitamente?
JK: Sei, sette anni fa se vi ricordate, tutta la musica era gratis: 35 milioni di canzoni da scaricare dalla rete. È incredibile se ci pensate, che a solo questi pochi anni di distanza ci siano 200 milioni di abbonati che pagano $10 al mese per la stessa musica. Perché la gente paga Spotify o Apple per avere la stessa musica? Per la convenienza e perché Spotify ti costruisce una playlist, ti da raccomandazioni con un algortimo e questo è un valore aggiunto che la gente è disposta ad acquistare. Anche noi offriremo simili modalità di organizzazione dei contenuti. Oltre alle fiction di prestigio poi, a scadenze regolari ci saranno notiziari anche questi ridotti all’essenziale in sei minuti e mezza. Giornali di qualità broadcast curati e d incentrati sugli interessi dei giovani – i titoli del giorno, musica, sport, spettacoli. E poi programmi localizzati per ogni mercato e quindi in un secondo tempo anche in altre lingue.

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