Esiste ancora una questione televisiva in Italia, o è scomparsa dall’agenda della politica con il tramonto di Berlusconi, un po’ come accade in quei processi, e per quei reati, che decadono con la morte (nel nostro caso politica) dell’imputato? Esiste ancora il conflitto d’interessi, in un mondo dove la politica è dominata dai media ed è fatta sulla televisione, mentre in Italia c’è un signore che detiene una sterminata fetta delle tv nazionali, monopolizza il mercato della pubblicità con Publitalia, controlla rotocalchi, giornali e le più importanti case editrici? C’è ancora la legge sulla par condicio, o è di fatto mille volte negata sugli schermi dei talk politici o d’intrattenimento, con una spudoratezza proporzionale all’oblio caduto su di essa?

Ci sono ancora le sentenze della Suprema Corte che reclamano pluralismo e autonomia nel campo televisivo, il superamento del rigido duopolio, l’affrancamento della tv pubblica dall’esecutivo, o sono state cancellate, magari prescritte?

E c’è qualcuno in giro, nei giorni delle nomine alla Rai, tra i partiti, tra gli intellettuali, nell’opinione pubblica più sensibile, magari nel famoso ceto medio riflessivo, che sia capace su questo di alzare la voce, dettando una volta tanto l’agenda alla politica, come pure è avvenuto in altri momenti della storia nazionale?

Tira una strana aria nel paese e lontanissimo sembra il tempo delle mobilitazioni politiche (della sinistra o almeno di una parte di essa), della società civile (con i suoi girotondi), della cultura (con professori e artisti), quando s’invocavano riforme che riportassero a normalità un paese in perenne stato d’eccezione.

La questione televisiva (e dei media) è come evaporata, dissoltasi anch’essa allo sciogliersi della ventennale glaciazione berlusconiana. Eppure sappiamo che il problema rimane. Sappiamo che da quel tempo nulla è mutato, se non gli equilibri di governo, e che la televisione continua ad essere centrale, nonostante il web e il digitale, per i partiti, la politica, la costruzione del consenso, la nascita o la morte di un leader.

Basta dare un’occhiata alle tabelle dell’Agcom e fare zapping sulle reti per accorgersi di come il tema della proprietà delle tv, da una parte, e quello del mancato rispetto della par condicio, dall’altra, su Rai e private, condizioni pesantemente la sfera pubblica.

Avremo modo di tornarci nel dettaglio, ma mentre la fa da padrone la solita, e usurata (come si vede dagli ascolti), compagnia di giro, molti soggetti sono ridotti ai margini, sottorappresentati o ignorati dallo spettacolo che va in onda sul video: dove appaiono sempre gli stessi giornalisti (Sallusti in overdose, ovvero Mieli, Belpietro, Giordano, Travaglio), qualche rissosa star per captare ascolti che non arrivano (Sgarbi), i soliti politici (su tutti Salvini, in studio o in collegamento), un sindacalista (è gradito Landini che s’incazza), da un po’ anche un grillino. Tutti insieme appassionatamente in programmi che si moltiplicano uguali sui troppi canali che, ciononostante (ecco il paradosso), non fanno pluralismo.

Se è vero che la qualità di una democrazia dipende anche dalla qualità della sua informazione, c’è qualcuno, oggi, che abbia voglia di riprendere la bandiera della riforma del sistema dei media, del pluralismo, della lotta ai monopoli? Qualche liberal-democratico vero che, come diceva Edmondo Berselli, pensa che non si risolve «il problema del duopolio semplicemente mettendo sul mercato metà del duopolio medesimo», cioè la Rai? Qualche politologo che, come un tempo Sartori, abbia voglia di scriverne su un grande giornale? Qualche giornalista tv che s’impegni a costruirci un’inchiesta, un talk-show? E la sinistra Pd, Sinistra Italiana (in questi giorni a ri-fondarsi) e, perché no, i 5 Stelle batteranno un colpo?