I classici, si sa, hanno forza per sorprendere. Per analizzare le tensioni tra Cina e Stati Uniti il politologo Graham Allison ha richiamato la «trappola di Tucidide», ossia l’analisi che lo storico greco dedicò (sono quasi 2500 anni) alle cause della guerra tra il blocco ateniese e il blocco spartano. Interessante ritorno a Tucidide: il paradigma antico di riferimento sembrava ormai quello etnografico, inclusivo, relativista di Erodoto. Le dure leggi della politica contemporanea sembrano riportare di attualità l’altro modello, rigoroso, razionale, fattuale e guerresco (ma non obiettivo).

Nello storico greco che piaceva a Hobbes lo storicismo ottocentesco aveva riconosciuto un precursore, anzi un maestro: per la tendenza a porre al centro i «fatti», per il rigoroso accertamento delle cause, per l’impegno a ricostruire «che cosa è veramente accaduto». Il ‘culto’ che gli venne tributato fu poi ridimensionato dalla stessa filologia tedesca. Dagli studi sullo storico parte dunque l’indagine di Dino Piovan su Tucidide in Europa Storici e storiografia greca nell’età dello storicismo (Mimesis, pp. 180, € 18,00), che completa e aggiorna ricerche precedenti.

I classici greci e latini sono stati un tema europeo forte, che impegnò i dotti in un fecondo dialogo sovranazionale. Dal principio dell’Ottocento la Germania, legata alla Grecia antica da molti richiami ideali, diffuse in tutto il continente l’idea di studiare il mondo classico con le lenti dello storicismo e della filologia. Tucidide fu «riscoperto» come storico da cui imparare il primato della storia politico-militare rispetto a quella economico-sociale. Ma la filologia pose anche una «questione tucididea», molto controversa: urgeva conoscere la genesi e la formazione dell’opera, e ne vennero minuziose analisi di strati e cronologie compositive. Non era pedante sfoggio di tecnica filologica, bensì uno sforzo di interpretazione storica.

Era importante capire come Tucidide aveva «pensato» la guerra del Peloponneso e delineato l’evoluzione della politica ateniese, era decisivo valutare i suoi giudizi sulla guerra (perduta), definendo il momento in cui poté esprimerli. L’analisi apportò indubbi risultati, ma a prezzo di disgregare l’unitaria personalità dell’autore: a una visione degli eventi compatta e lucida si sostituiva una molteplicità di strati, di incompiutezze, di redazioni. Si è detto che le tante teorie proposte per «risolvere» la questione hanno creato una bizzarra «tela di Penelope», continuamente disfatta senza poter fissare punti davvero definitivi.

Dagli studi tedeschi derivò in Italia, tra le due guerre mondiali, un’intensa fase nella ricezione di Tucidide, nella quale contò l’influenza del magistero di Julius Beloch a Roma. Furono coinvolte personalità di eccezionale rilievo culturale e storiografico, come lo storico Gaetano De Sanctis e i suoi allievi Aldo Ferrabino e Arnaldo Momigliano (e sullo sfondo c’erano figure come Giovanni Gentile e Benedetto Croce). La «scuola» di De Sanctis fu un modello insuperato di alto livello scientifico e di intensa carica umana. Fra il maestro e gli allievi di generazioni diverse (c’erano tra loro anche Pareti, Levi, Treves) era aperto un dialogo serrato e critico, dal quale tutti traevano stimoli importanti. La ricerca, svolta secondo le rigorose griglie della filologia, si apriva a questioni radicali, che interpellavano gli studiosi e gli uomini.

Soprattutto le ricerche su Tucidide svolte da Ferrabino (professore a Padova, figura oggi meno nota e ben valorizzata da Piovan) portavano a interrogarsi sul «senso» della storia greca, a riflettere sulla durezza dell’imperialismo ateniese, e più in generale a meditare sul tema della «libertà» degli antichi. Negli anni trenta era in Italia una questione cruciale, sul piano etico, filosofico, e politico: la crisi del liberalismo, l’affermazione della dittatura, la fascistizzazione della cultura suggerivano di cercare, anche nel mondo antico, risposte o modelli. Era interessata in particolare la storia greca, libera dal condizionante mito, nazionalista e poi fascista, della «romanità». Le risposte ai problemi posti dallo studio di Tucidide furono diverse: la questione era carica di valore, con implicazioni personali rilevanti (il rapporto con il regime, per esempio, o con la guerra).

Ferrabino muoveva dal dibattito sui limiti e i pregi dell’autonomia della polis greca rispetto alla forza «unitaria» rappresentata dai grandi regni come la Macedonia, e cercava di uscire dai rigori del positivismo storiografico. Approdò, con un percorso personalissimo e influenzato da Gentile, a una interpretazione pessimistica: la storia greca era fallimentare, logorata dall’incapacità di scegliere tra «libertà» e «potenza». In tal modo si negava valore anche alla teoria della storia come «storia della libertà»: ciò gli procurò ostilità, storiografica e politica, e non solo dagli ambienti crociani. In anni di oppressione politica, molti ritenevano doveroso preservare il valore ideale della «libertà», persino in quelle scelte che la storia aveva poi dichiarato «perdenti» (Demostene, Mazzini).

Lo sguardo di Momigliano, che a Tucidide aveva dedicato la tesi di laurea, fu molto rigoroso. Legato pure a Gentile ma attento all’autorevolezza di Croce, Momigliano rimase, allora e anche poi, fedele alle esigenze «fattuali» della ricerca storica e storiografica, più che ai problemi di filosofia della storia. Così gli aveva insegnato De Sanctis: ma furono in lui particolarmente feconde le riflessioni di Ferrabino. Nel giro di pochi anni febbrili il suo pensiero conobbe una elaborazione innovativa, acuta, mobilissima. La ricerca su Tucidide lo condusse a un ripensamento generale, che definiva su nuove base il rapporto fra pace e libertà nel mondo antico, considerando anche l’ellenismo e l’impero di Roma. Ma vennero la perdita della cattedra e l’esilio (1938-’39), la guerra e la Shoah, che l’allontanarono dalle problematiche degli anni giovanili, e da Tucidide: questa frattura umana, politica, accademica è tra i mali non riparabili che il fascismo e le leggi razziste del 1938 hanno fatto all’Italia.

Le ricerche degli allievi indussero anche in De Sanctis una evoluzione. Partito dal positivismo ma spinto da salde esigenze etiche, egli trasse dall’idealismo la spinta a trasformare, come anche altri studiosi nel medesimo periodo, la filologia in «storia». Le sue posizioni erano sempre profonde, ma spesso contraddittorie: non condivideva il culto tucidideo di Ferrabino, e pur essendo critico sulle responsabilità dell’imperialismo ateniese (e di quello romano), non sapeva né voleva «rinunciare» al valore ideale del modello democratico di Atene.

Per i protagonisti di questo dibattito, la catastrofe d’Italia tra fascismo e guerra ebbe conseguenze. Di Momigliano si è detto. Il pessimismo storico portò Ferrabino a una pia conversione negli anni quaranta. Per De Sanctis, dopo le privazioni personali e materiali vennero i ruoli autorevoli restituiti o attribuiti dopo la liberazione di Roma. Ma lo studio della storia antica sarebbe ripartito, nel dopoguerra, da altre istanze (anche ideologiche), chiudendo di fatto una fase storiografica. Di questi dibattiti, e di grandi studiosi come Ferrabino, Momigliano e De Sanctis, Piovan restituisce con competenza ed empatia il senso profondo, incrociando nel ragionamento storia e filologia, pensiero filosofico e storiografia. Come rimarca Ugo Fantasia nella densa postfazione, il dibattito su Tucidide andava oltre l’università o le sedi erudite: proponeva questioni di storia e di politica che per noi oggi sono ancora attuali, o forse urgenti.