Il gioco, scriveva Eugen Fink, sfugge al concetto. Non ama le definizioni, ma in qualche modo le comprende tutte. Il gioco, insegnava il filosofo tedesco, nelle lezioni tenute presso l’università di Friburgo, in Brisgovia, per il periodo estivo del 1955, è un fenomeno fondamentale dell’esistenza umana. Come il lavoro, ma più del lavoro. Come l’amore, ma più dell’amore. Come il conflitto, ma più del conflitto. Come la morte, ma oltre la morte. Il gioco, letteralmente, entra e pervade ogni altro fenomeno dell’esistente. Vi irradia un nuovo spirito. O lo consuma. Da qui la doppia natura, di figura e ombra, del gioco. Lo rimarcano Aldo Masullo e Francesco Piro, in due dei ventisei saggi raccolti a cura di Ornella De Rosa in Faites vos jeux! Gioco pubblico e società contemporanea: storia, implicazioni, prospettive (Editori Laterza «Itinerari», pp. XX-485, e 28,00).
«Simboleggiare l’essere nel gioco» – scrive Masullo in pagine riprese in questo volume, che in origine introducevano la prima edizione italiana dell’Oase des Glücks (1957) di Fink – vuol dire «ammettere che l’uomo è giocato, anzi che egli, secondo l’immagine di Plotino, non è che un giocattolo, nient’altro che mosse di un gioco». Il gioco – spiegava d’altronde quello che Husserl definiva «il più grande dei fenomenologi» – non è un’apparizione marginale o un fenomeno contingente nella vita dell’uomo. Esso appartiene alla costituzione stessa dell’esistenza umana. Eppure la naturale tendenza dei fenomeni di gioco a sottrarsi dall’ansia definitoria degli uomini («che cosa è gioco?», «Chi muove il gioco?») e, al contempo, questa loro coestensività a tutti gli aspetti della vita e persino della morte è un’inevitabile – e inesauribile – fonte di malintesi. Tali malintesi, sembrano suggerire i saggi più giuridici e operativi (e forse più suscettibili di riflessione critica) raccolti nella seconda parte del volume, hanno un inevitabile riverbero di scala sulle decisioni pubbliche in materia di contenimento o espansione del cosiddetto «gioco pubblico» o azzardo legale. Un settore, quest’ultimo, che oltre a produrre esternalità e patologie, fa problema a sé. Basta una lettura delle tabelle presentate nel saggio di Ornella De Rosa, L’ebrezza dell’alea. Gli italiani e il gioco pubblico, tra scommesse e ludopatia, che «mappano» flussi di tempo, affettività e denaro movimentati sul territorio del gioco. Nell’ultimo anno contabile, il 2018, l’azzardo legale ha generato un flusso di denaro e di spesa di 102 miliardi di euro, con una prevalenza di consumi sul machine gambling (slot machine) e le scratch cards (Gratta & Vinci).
Lo storico Giuseppe Imbucci, fra i primi e fra i pochi a cogliere già negli anni novanta i segni di questa deriva pubblica, ricordava che «il gioco trasferisce ricchezza senza produrne». Dove il flusso di denaro e l’offerta di gioco superano una certa soglia – spiegava Imbucci – viene meno la politica e si instaura, per dirla in termini foucaultiani, un governo ludico dei viventi. Una sorta di ludocrazia che, intensificandone la coestensività, grazie a dispositivi tecnico-giuridici altamente formalizzati permette di incrementare, a discapito di quella ludica, una funzione puramente regressiva del gioco.
Funzione che Imbucci definiva «biologica» e compensatoria di un malessere sociale, mentre una «normale» funzione ludica dovrebbe essere esplicativa di un benessere.
All’interno di queste contraddizioni, come parlare, oggi, di gioco pubblico? Come, di azzardo? Come definire il campo di un dispositivo perfettamente funzionale alle logiche di sfruttamento della vita, che sfugge continuamente di mano tanto ai suoi presunti regolatori quanto ai suoi benintenzionati critici? La chiave storico-critica e storico-concettuale, che occupa la prima parte del volume, sembra la più feconda, quanto meno per mettere in prospettiva i temi e cogliere continuità e fratture nei problemi.
Accade però che persino uno fra i lavori più citati e letti, Homo ludens di Johan Huizinga, rischi continuamente di essere banalizzato e frainteso nel dibattito corrente. Più ancora di quelli di Fink, il lavoro seminale di Huizinga contiene numerose insidie categoriali e concettuali, oltre che risentire degli inevitabili segni del tempo. Tralasciando i segni del tempo, è alle insidie che si può fruttuosamente guardare. Sono piccoli punti di snervamento in cui il discorso dello storico olandese sembra incepparsi, autodichiarandosi incapace di fare sistema e di fornire una definizione univoca del fenomeno «gioco». Huizinga, rimarca Francesco Piro nel saggio Gioco come laboratorio di cultura, è aperto fin dall’inizio quando scrive «il nostro soggetto (il rapporto fra gioco e cultura) ci permette di non esaminare tutte le forme esistenti del gioco, limitandoci alle essenzialmente ai giochi di indole sociale». Nelle pagine finali di Homo ludens, i buoni propositi vengono però disattesi. L’impatto con le modeste verità di fatto, ossia le declinazioni concrete del fenomeno «gioco» è uno shock, anche per un inguaribile ottimista come Huizinga che, accanto alle «forme superiori del gioco» deve registrare una corruzione delle stesse.
Huizinga si serve della categoria del gioco per delimitare una «forma formante» della cultura. Nel gioco, scrive, «abbiamo a che fare con una categoria di vita assolutamente primaria, facilmente riconoscibile da ognuno, con una sua “totalità”». Se questo è vero, allora anche la cultura viene in qualche modo «giocata» in un orizzonte che si pone al-di-là del serio e al-di-là dell’utile. Il gioco è allora useless, ma non meaningless. Huizinga scrisse il proprio lavoro nel 1938, ma le riflessioni sul gioco, anche volendo prescindere da quelle sviluppate nell’Autunno del Medioevo (’19), originano da una data precisa: il 1933, annus horribilis per l’Europa. Nel febbraio di quell’anno Huizinga tenne il proprio Discorso di Rettorato a Leida, investigando i limiti del gioco e del serio nella cultura. Pochi mesi dopo, in qualità di Rettore vietò l’ingresso nell’ambito di un congresso internazionale studentesco a Johan von Leers, capo dellla delegazione tedesca, autore di un pamphlet antisemita titolato Forderung der Stunde: Juden raus! [Esigenza del momento: fuori gli ebrei!], in cui si imputava al popolo ebraico , tra le altre cose, l’esercizio di una presunta pratica di infanticidio rituale. La decisione di denunciare pubblicamente e istituzionalmente von Leers fu gravida di conseguenze. Huizinga le pagò tutte, anche quando, dopo l’occupazione nazista dell’Olanda, non esitò a celebrare l’anniversario dell’indipendenza e la lotta di Guglielmo d’Orange. Incarcerato e posto sotto sorveglianza a De Steeg, nei pressi di Ahrnem, tra il ’42 e il ’45, anno della sua morte, visse in questa sorta di esilio in patria, deprivato della propria biblioteca e intento a riflettere sulle derive ludiche del proprio e del nostro tempo.
Non si comprendonoo le pagine finali – quelle più intense, ma forse le meno suggestive – di Homo ludens senza questo risvolto biografico. Fra quelle pagine, oltre a una critica alla categoria amicus-hostis divulgata da Carl Schmitt in contrapposizione alla tematica del grande gioco delle relazioni fra Stati, Huizinga accenna a una doppia figura di corruzione dell’elemento ludico nella cultura odierna. La prima, oggettiva, è il «gioco falso» che pur mantenendo la struttura formale del gioco non ne condivide lo spirito e, da forma formante, diventa fenomeno disgregativo del legame sociale. La seconda è soggettiva e si identifica in una certa corruzione del senso comune che Huizinga definisce «puerilismo». Dai fenomeni classificati come «gioco», suggerisce, scompare la dimensione ludica e vi entra quella puerile, ipnotica, manipolabile. In una parola: di massa.
«La propaganda odierna – scriveva – cerca di sequestrare ogni campo di vita, usa i mezzi destinati a ottenere isteriche reazioni di massa, e perciò non si può accettarla – neppure quando assume delle forme di gioco – come una manifestazione moderna dello spirito ludico, ma soltanto come sua falsificazione». Siamo davvero tanto distanti da questo orizzonte?