Il libro, oggi, ricorda quei visitatori dei musei sollecitati dai guardiani a sostare non più di cinque minuti davanti a un quadro perché la coda deve procedere. Così i banconi delle librerie: tre mesi di permanenza, quattro al massimo, perché un nuovo libro preme. Poi, se va bene, il povero volume passa a scaffale per altri tre mesi o, se va male, conosce un mesto ritorno al magazzino dell’editore. Una volta la durata in libreria raggiungeva anche una decina d’anni. Lo scrittore impiegava un anno o poco più per scrivere un romanzo, che – se pubblicato – rimaneva in vendita in libreria dieci volte tanto; oggi un romanzo che ha richiesto lo stesso tempo medio di lavoro dopo sei mesi è scomparso. La strategia delle case editrici si è ribaltata, dalla selezione in base alla qualità sono passate alla non-selezione a favore della quantità. La logica è questa: se pubblichiamo tanti libri, il flusso di cassa è continuo. Non solo: come alla roulette, una volta ogni vent’anni c’è la possibilità di azzeccare il numero fortunato (500mila? un milione?) di copie vendute. A questo punto siamo già dentro il circolo vizioso: siccome gli editori, per pubblicare di più, hanno allargato le maglie della selezione dei dattiloscritti, gli autori scrivono più rapidamente, spesso senza aver nulla da dire. E di qui, di nuovo, più libri, meno pensati e scritti spesso con uno stile insipido.
Nel frattempo, tutti a dire che questo circolo vizioso andrebbe fermato e invertito. Anche perché, com’è ampiamente dimostrato dalle statistiche, non è vero che se si riversano più libri sui banconi, come calzature al mercato, gli italiani leggono di più. Al contrario. Gli italiani continuano a leggere poco (sempre meno) e male. Ora, che cosa fanno, concretamente, per cambiare l’attuale e umiliante stato di cose, non solo gli editori, ma gli autori, i distributori, i librai, i quotidiani, i settimanali, i mensili specializzati, gli enti e le associazioni culturali, le biblioteche, le fiere del libro, i festival della letteratura? A parte presentarsi per «predicare bene» in qualche convegno sulla crisi dell’editoria, poco o nulla, al punto che ormai è chiaro che in realtà la situazione va bene a tutti, un po’ come il Porcellum. Come diceva una decina di anni fa Jérôme Lindon, direttore delle Editions de Minuit, «l’editoria è l’unico settore che ha risposto a una diminuzione della domanda con un aumento dell’offerta». Un’offerta, inevitabilmente, di scarsa qualità: il libro ha perso il suo valore di strumento di trasmissione del sapere e con una sua visione del mondo per assumere il ruolo di prodotto merceologico; nelle case editrici il direttore commerciale decide ormai il destino non solo degli scrittori in catalogo, ma anche quello del direttore editoriale.
Il dramma è che dagli anni Ottanta viviamo una fase storica nella quale il dominio della società – ma direi addirittura il controllo della realtà percepita dalle coscienze individuali – è in mano a coloro che potremmo definire i tecnici del capitale, i quali hanno espropriato gli intellettuali di una qualsivoglia titolarità. A guidare il mondo non è la cultura, non è la politica, non è neppure l’economia, ma la finanza. Come ho scritto in un libro su Lucio Mastronardi, uno scrittore che aveva visto con largo anticipo i danni che avrebbe prodotto il boom economico, la conseguenza più grave dell’emarginazione è stata che l’intellettuale e, in particolare, lo scrittore non si è più visto rinnovare il suo «mandato sociale», cosicché il suo ruolo ha perso legittimità, sia dall’alto che dal basso, senza che si sia prodotta una reazione. Gli intellettuali, semplicemente, si sono adeguati.
Che fare? Sicuramente non è più rinviabile un’assunzione di responsabilità da parte di tutti i soggetti che partecipano alla filiera editoriale. Gli scrittori dovrebbero riflettere di più sulla reale necessità del libro in gestazione, gli editori selezionare i libri da pubblicare con più rigore, la distribuzione dovrebbe diversificare i canali, i librai evitare perlomeno quelle fastidiose colonne di libri all’ingresso, ad esempio di Bruno Vespa, di Moccia o di Volo, proponendo loro stessi titoli interessanti (ci sono e sono facili da individuare, non sono scomparsi), i critici e i giornalisti culturali resistere maggiormente alle pressioni degli uffici stampa nel caso in cui il volume da recensire sia privo di forza e originalità, i festival letterari evitare di trasformare gli scrittori in «star» per poi scoprire che l’incontro con il pubblico spesso sostituisce la lettura del libro. Probabilmente per salvare la cultura da questo stato di umiliazione basterebbe che ognuno tornasse a fare il suo mestiere, compresi gli insegnanti di italiano. Perché non promuovere l’educazione alla lettura a materia di studio? È dalla scuola che muove tutto: se i giovani apprendono il piacere della lettura, la domanda condizionerà l’offerta. I buoni libri possono vincere sui cattivi.