Che la musica sia un linguaggio universale è un luogo comune così abusato da sembrare ormai privo di senso. E invece qualche verità c’è, secondo uno studio realizzato da un gruppo di neuroscienziati, informatici, etnografi e musicologi guidati da Samuel Mehr dell’università di Harvard, appena pubblicato dalla rivista «Science».
I ricercatori hanno analizzato un catalogo di musica tradizionale proveniente da sessanta popolazioni distribuite in trenta regioni del mondo, dai giapponesi Ainu ai sudafricani Zulu. Dalla ricerca è emerso che la funzione culturale e le caratteristiche acustiche delle canzoni hanno caratteristiche comuni. Al punto che possiamo distinguere un canto religioso da una danza anche se non appartiene alla nostra cultura. Secondo i ricercatori «c’è più variabilità nelle abitudini musicali all’interno di ciascuna cultura che tra una cultura e l’altra». Eppure, come ammettono gli stessi scienziati, pochi musicologi accettano l’idea che la musica abbia caratteristiche universali.

IL DIBATTITO È IN CORSO da quando, oltre due secoli fa, l’esplorazione completa del pianeta ci ha confermato che tutti i popoli suonano e cantano, anche se in modi diversi l’uno dall’altro. Inoltre, altre specie animali oltre alla nostra sono in grado di generare musica: uccelli, balene, i gorilla che si battono sul petto e gli scimpanzé che percuotono oggetti scelti per la loro rumorosità. Se la propensione musicale dei primati ha un’origine comune, deve risalire ad almeno sette milioni di anni fa, quando i rami evolutivi di scimmie e umani si sono divisi. Ed è plausibile che abbia mantenuto tratti comuni fino a oggi.
Per verificare questa ipotesi, gli scienziati di Harvard hanno unito gli strumenti della ricerca sociale alla cosiddetta «data science», l’analisi al computer di grandi quantità di dati. In particolare, hanno esaminato l’archivio di canzoni di tutto il mondo conservato alla Loeb Music Library dell’università di Harvard e l’ «Ehraf World Cultures», una banca dati dell’università di Yale che dal 1949 raccoglie documentazione su popolazioni e culture di ogni parte del mondo.

I ricercatori hanno rilevato alcune caratteristiche universali nelle diverse tradizioni musicali. Ninne nanne, danze, canti religiosi e guaritori, presenti in ogni cultura, possono essere classificati da un algoritmo in base a tre caratteristiche: cerimonialità, vivacità e religiosità. Poi hanno chiesto aiuto al «popolo della rete»: agli utenti del sito www.themusiclab.org, è stato chiesto di ascoltare una registrazione e classificarla in una delle quattro tipologie individuate. Sorprendentemente, i circa trentamila utenti che hanno partecipato all’esperimento sono riusciti a collocare le melodie nella giusta categoria con discreta precisione.

ANCHE dal punto di vista melodico le canzoni mostrano analogie notevoli. Innanzitutto, sia il computer che un team di ascoltatori esperti (musicisti e musicologi) riconoscono una tonalità dominante in gran parte delle canzoni ascoltate. Inoltre, gli scienziati hanno contato le distanze tra due note consecutive (si chiamano «intervalli») in ogni canzone e hanno scoperto che alcuni intervalli, gli stessi in ogni cultura, sono molto più frequenti di altri. Si chiama «legge di Zipf» ed è la stessa che governa la frequenza delle parole in tutte le lingue. Anche in linguistica si ritiene che esista una «grammatica universale» comune a tutte le lingue secondo un’intuizione di Noam Chomsky sostenuta anche dal suo allievo-rivale Pinker, co-autore dello studio su «Science».
L’informatica e la rete hanno dimostrato oggettivamente l’universalità della musica, chiudendo un dibattito bicentenario? Difficile a dirsi, e di certo molti musicologi non saranno d’accordo. La tesi era già in auge in passato. Una scuola «universalista» era sorta nella Berlino degli anni ‘30. «Purtroppo, i suoi esponenti più importanti (quasi tutti ebrei) furono costretti a fuggire da Berlino e quelle ricerche furono distrutte», spiega sempre su «Science» il biologo cognitivo Tecumseh Fitch dell’università di Vienna.

PIÙ IN GENERALE, però, la tesi universalista è stata ritenuta razzista. «Sembrava sottintendere che principi della musica occidentale erano universalmente validi in quanto essa era l’unica vera musica, di cui tutte le altre rappresentavano diversi stadi evolutivi, o addirittura degenerazioni», scrive il musicologo ceco Bruno Nettl in The Study of Ethnomusicology (University of Illinois Press, 1992). Perciò, gli etno-antropologi hanno a lungo cercato di dimostrare il contrario: cioè che ogni tradizione musicale ha avuto un suo sviluppo indipendente e altrettanto ricco.
Ora si torna a parlare di «universali» con un approccio quantitativo, favorito da strumenti scientifici e tecnologici sofisticati. Nonostante l’apparente oggettività del loro studio, anche Mehr, Pinker e colleghi hanno osservato l’universo musicale da un punto di vista niente affatto neutro. Gli algoritmi utilizzati per individuare le tonalità sono predisposti a riconoscere le armonie occidentali nelle melodie trascritte sul pentagramma, cioè tradotte nell’alfabeto musicale occidentale. A maggior ragione, anche gli esperti coinvolti sono influenzati dalla loro matrice culturale occidentale.
Tra le righe, gli stessi autori ammettono che «per verificare l’universalità della percezione della tonalità, bisognerebbe condurre esperimenti sul campo in diverse popolazioni». In passato, popoli diversissimi tra loro sono stati chiamati indistintamente «barbari» solo perché dalla prospettiva di un abitante dell’Impero le loro lingue sembravano simili per quanto erano incomprensibili. È possibile dunque che le somiglianze rilevate dai ricercatori siano solo apparenti e dipendano dalla posizione privilegiata da cui ascoltiamo il mondo.

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NOTIZIARIO

Il lampo più intenso dell’universo

La collaborazione «Magic» ha rilevato il lampo di raggi gamma (fotoni) con l’energia più elevata mai osservata. I fotoni captati il 14 gennaio in provenienza dalla regione del cielo compresa tra le costellazione dell’Eridano e della Fornace avevano un’energia dell’ordine dei mille miliardi di elettronvolt. Per avere un’idea, quelli emessi dal Sole sono mille miliardi di volte meno energetici. Un evento analogo è stato osservato dalla collaborazione Hess grazie a una rete di telescopi situati in Namibia. I lampi di raggi gamma sono gli eventi più violenti osservabili nell’universo e sono il risultato di collassi gravitazionali molto intensi, come la fusione di buchi neri o stelle di neutroni. Si ritiene che un lampo di raggi gamma può rilasciare in pochi secondi un’energia pari a quella emessa dal Sole durante la sua esistenza. I resoconti delle osservazioni di Magic e Hess sono stati pubblicati sulla rivista Nature. (An. Cap.)

 

 

 

 

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Promettenti risultati per una Crispr-terapia

Primi risultati promettenti per una terapia genica sperimentale basata sulla tecnica Crispr e mirata alle cellule del sangue. Due pazienti affetti da beta-talassemia e da anemia falciforme hanno ricevuto cellule staminali modificate in modo tale da correggere le mutazioni che causano le due malattie dei globuli rossi. Il paziente beta-talassemico ha ottenuto livelli di emoglobina nel sangue più elevati da non avere più bisogno di trasfusioni. Nell’altro paziente, il trattamento ha per ora eliminato le crisi che caratterizzano l’evoluzione tipica della malattia. I risultati, per quanto promettenti, devono essere replicati su un numero maggiore di pazienti e monitorati su un periodo più lungo dei sei mesi trascorsi dall’inizio della sperimentazione. (An. Cap.)

 

 

 

 

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Scienziati e scienziate a rischio

Sono state 324 in 56 paesi diversi le violazioni dei diritti e gli abusi perpetrati ai danni di scienziati o di studenti nel mondo nell’ultimo anno. È il conto annuale riportato da una rete di difesa della liberta di ricerca, Scholars-at-Risk, con sede alla New York University. Il dato si basa su segnalazioni riportate da volontari, dunque ha un valore statistico limitato. Tuttavia, segnala «Scholars-at-Risk» il fenomeno degli attacchi contro gli scienziati non sembra in calo, al contrario: l’anno scorso le segnalazioni erano state 294 in 47 Paesi. Tra quelli più pericolosi per gli scienziati ci sono l’India, il Sudan, l’Afghanistan, la Turchia e il Brasile. Il rapporto però non include ancora, per i tempi di pubblicazione, i dati relativi alla repressione delle manifestazioni studentesche di Hong Kong, che potrebbero far impennare le cifre del prossimo rapporto. (An. Cap.)