Nella Sala de Bóvedas, un ampio spazio ipogeo del Centro de cultura contemporanea Condeduque di Madrid, è allestita una mostra di quelle necessarie, per quanto il termine possa sembrare estraneo o favoloso per le cose dell’arte. In Pan y Circo. Arte y Alimentatión (fino al 16 aprile 2023), la curatrice Alicia Ventura ha selezionato diciassette opere che trattano l’argomento «cibo» sotto molti diversi punti di vista, e sono assai diverse tra loro per tecniche e materiali. Appartengono agli ultimi vent’anni, con un’eccezione: la pionieristica e provocante animazione che Peter Folders produsse nel 1973, La faim/Hunger, dove uno stressato manager si riempe di cibo, dilatandosi enormemente e finendo per sognare di essere divorato da una folla famelica.

LA MOSTRA PUÒ DIRSI necessaria perché tutti abbiamo a che fare col cibo e non s’è mai abbastanza consapevoli della sua potenza, della sua forza di rito e di trauma, della magia nel suo essere tanto basilare quanto accessorio, imprescindibile e contingente, essenziale e casuale, obbligatorio e opzionale; così com’è sempre o buono o cattivo, o troppo o troppo poco, o accessibile o inavvicinabile. Vero è che deleghiamo al cibo tanto, troppo, sia culturalmente sia politicamente sia emotivamente: e al fondo di questa delega c’è il corpo, la sua materialità e vanità.
Ma dietro al cibo e all’alimentazione c’è anche una certa idea del pianeta, l’immagine di una sua rapida consunzione, un presentimento di contaminazione.
Questa la direzione interpretativa dell’esposizione, che più precisamente suona l’allarme sul colossale furto di una funzione primaria, ormai dominata dalla logica del profitto, dalla dissipazione delle risorse e dallo sfruttamento dei corpi.

AD ACCOGLIERE IL VISITATORE, infatti, c’è il tetro video di Greta Alfaro, In ictu oculi (2009), nel quale una nuvola di avvoltoi spolpa una tavola preparata per un banchetto, che proprio a colpo d’occhio suscita emergenza e disgusto, e anche una certa pena per l’oscenità: potrebbe essere una postilla a La grande bouffe, il grottesco film firmato da Marco Ferreri nel 1973, dove quattro amici si suicidavano in un’orgia di pietanze. Benché la morte sia inevitabilmente connessa al cibo e alla nutrizione, e il tema della corruzione e della rigenerazione riemerga spesso, la mostra non si nutre solo di quest’estetica.

TUTTAVIA UN CAMPANELLO di allarme par sempre suonare. Così è il caso del Muk-bank (2021), proposto in video da Rosalía Benet, dove una graziosa bocca sfida paziente una montagna di fritti e carboidrati. Ironica e mimeticamente efficace è Tania Blanco, Dégustation Unlid (2017), che in video passa in rassegna una serie di prodotti dell’industria alimentare, tramite alcuni test gustativi di simil confezioni di noti articoli venduti da un noto distributore, opera che appunto scoperchia gli additivi tossici e lo sfruttamento del lavoro, occultati in ciò che mangiamo.
Anche il collettivo madrileno Basurama fa apparire qualcosa che si nasconde dietro ogni allettante alimento confezionato: Chainwork (2009) fa scorrere due proiezioni affiancate, quella di prodotti integri e quella dei loro resti spazzatura, creando un’associazione gestaltica che riproduce e allunga la filiera alimentare fino alla discarica.
CATTURANO ANCHE, nel percorrere le stanze, alcune istallazioni. A cominciare da quelle fotografiche di Winkler+Noah, Beyond the Body (2019), un progetto che puntava a rappresentare l’inquietante dilatazione di quattro corpi obesi, diventati superficie disegnata per mano di un calligrafo (Visioli), una tatuatrice (Toy), un’illustratrice (Marcelli) e un muralista (Millo), e di Ángel Marcos, La mar negra (2010), quattro ritratti di astanti, che con sguardo assente sono ammessi a guardare un’illusoria tavola riccamente imbandita.

Altre installazioni ci portano invece nella sfera della trasformazione delle materie elementari di cui il cibo è composto. Alchemica e sensoriale è l’installazione di Carles Terrassó Oliver, Espacio visceral (2020), al cui centro c’è la varietà di profumi degli agrumi mediterranei: mandarini e limoni ora sono impastati con l’argilla, ora lasciati macerare e colare tra lastre di vetro, infine affettati e compattati in porcellana trasparente. Marta Fernandez Calvo scolpisce un paesaggio astratto che sintetizza materie e colori raccolti da lei e il padre nei rispettivi luoghi di abitazione e quindi scambiati come corrispondenza: Correspondencia (2022) vuole riprodurre i segni che la viticultura e il vino producono e lasciano nello spazio vissuto.
Metafora visiva sembra essere Dumping (2014) di Asunción Molinas Gordo: da una travatura metallica fa pendere pesanti sacchi alimentari, segnati da un marchio che allude al Wfp dell’Onu, che nel fornire aiuto alimentare saturerebbe il mercato e deprimerebbe le iniziative di produzione agricola locale. Tutte le artiste e gli artisti hanno alle loro spalle una pratica d’arte che ha nella questione cibo un riferimento privilegiato, come dimostra la presenza con Tabù, power food (2009) di Antoni Miralda, un veterano indagatore della relazione arte e cibo sin dagli anni Settanta: con un vezzo pop, presenta la consueta scena di tavoli e sedie da bar di strada, sui quali campeggiano scritte dei concetti più comuni della cultura del cibo insieme a contraddittori segnali di divieto.

*

SCHEDA. Il pane all’uvetta di Maupassant e i pranzetti dei Buddenbrock

Anche la grande letteratura mangia: a volte lo fa con gusti rustici, altre raffinati. Lo dimostrano alcune pagine di romanzi in cui si possono trovare ricette succulente e tradizionali perché, come diceva Joseph Conrad, «la buona cucina è un agente morale». Amori e dissapori passano, per esempio, per la cottura della marmellata di lamponi in Anna Karenina di Tolstoj, così come con un «pranzetto molto semplice» sceglie di inaugurare la saga dei Buddenbrock Thomas Mann, dove il piatto forte è un prosciutto affumicato e bollito con lo scalogno, colpevole forse dei dolori da indigestione per il piccolo Christian.
Rudyard Kipling, in Capitani coraggiosi, affida la ripresa di Harvey, recuperato in mare, a una zuppa di interiora di merluzzo con lardo e patate fritte, mentre Katherine Mansfield (dai racconti Preludio e felicità) consiglia vivamente un’anatra rosolata, guarnita di polpettine da presentarsi su un vassoio azzurro per la tavola di campagna, dopo il trasloco dalla città, di Stanley Burnell. Natalia Ginzburg, in Tutte le voci della sera lascia che Tommasino si delizi con un soufflé agli spinaci in una cena famigliare in cui è l’invitato inatteso.
Tutti gli ingredienti e le varie degustazioni descritte si possono scovare fra le pagine del libro di Oretta Bongarzoni Pranzi d’autore, uscito per minimum fax: un volume arricchito dalle belle illustrazioni di Agnese Pagliarini e con la postfazione di Davide Orecchio (pp. 125, euro 20). Nel suo testo, spiega come sua madre (Bongarzoni, 1939-1995) nel 1994, per accumulare materiali, non ricorresse a internet e scrivesse nei giorni afosi dell’estate, divertendosi a battere a macchina quei ricettari astrusi che pescava qua e là dai romanzi classici. Sarebbe stato, quel mondo di vivande arrosto, al pistacchio, ricoperte di cumino, alla mugnaia, in gratella, la sua ultima fatica letteraria. «Era ammalata e aveva raccolto ricette. Dalle sue carte e dai libri si era sparso per casa il sapore immaginato, con l’odore, dell’omelette di Tabucchi, del pane all’uvetta di Maupassant, dei krapfen di E. M. Forster. Stanò pietanze da romanzi, memoriali, racconti. Aveva il progetto di sposare letteratura e cucina», dice Orecchio. (Arianna Di Genova)