Dal 17 al 24 settembre Milano sarà in fibrillazione per la settimana della moda. In certe parti della città sarà difficilissimo muoversi e/o cenare fuori casa, ma è il prezzo da pagare per gli eventi, le cene e quant’altro che fanno da corollario alle circa sessanta sfilate e che, secondo la Camera di Commercio di Milano, coinvolgono 19mila imprese creando un giro di affari di 10 miliardi l’anno fra ristorazione, alberghi, alloggi, trasporto, shopping. Appuntamento mondano fra i più ambiti è il Green Carpet Fashion Award che si tiene il 23 al teatro alla Scala per celebrare, come recita la cartella stampa, «i traguardi raggiunti in materia di sostenibilità all’interno della filiera della moda e del lusso» e, così, premiare le case che più si sono spese in materia.
Encomiabile, ma qui si apre un problema, anzi una voragine. Se è vero che non sempre un oggetto di lusso è anche bello e che il gusto è cultura, è altrettanto vero che, come fai a comprarti un cappotto da mille o duemila euro se ne guadagni mille al mese? In uno dei settimanali in cui ho lavorato c’era un collega che, per complimentarsi con la vicedirettora che indossava un bellissimo golfino di cachemire, le disse: «Ohcccara, vedo che non conosci l’umiliazione della lana».

Lei gongolò, noi della truppa pensammo che non conoscevamo l’umiliazione di avere solo due neuroni nel cervello. Si potrebbe anche dire, come alcuni fanno, meglio pochi pezzi ma buoni. In ogni caso la forbice resta enorme, tant’è che nella capitale italiana della moda è più facile veder circolare gente vestita maluccio che bene, oppure tendente al Vorrei ma non posso. Dentro questo cratere delle possibilità si sono infilati i colossi del low cost e del fast fashion. Il primo, dominato da H&M, offre capi a prezzi stracciati e di qualità equivalente. Il secondo, il cui campione è Zara, si dà più arie in fatto di gusto e stuzzica la corsa all’acquisto con nuove collezioni due volte a settimana. Chi non ha la memoria corta di sicuro ricorda che questi nomi i furono affiancati al disastro avvenuto vicino a Dacca, in Bangladesh, nel 2013. Crollò il Rana Plaza, fabbrica di nove piani dove morirono 1130 operaie e operai del tessile che producevano abiti anche per note marche occidentali, gli stessi che poi finiscono sulle nostre bancarelle e nei nostri negozi. A tutto ciò aggiungiamo che, come ha scritto sul Guardian Lucy Siegle, giornalista inglese che si occupa di stili di vita etici, nel mondo si producono ogni anno 100 miliardi di abiti e che secondo un recente report della ONG Stand.Earth l’industria della moda è la quarta più inquinante al mondo.

Consumo di acqua, fibre estratte dal petrolio (vedi poliestere), coltivazioni di cotone infestate da pesticidi, tinture a base chimica, microfibre che lavate in lavatrice disperdono micro particelle di plastica sono fra i maggiori responsabili. Vestirsi, dunque, non è un gesto banale perché ogni capo che scegliamo, oltre a dare un’immagine di noi, arricchisce qualcuno invece che qualcun altro, inquina di più o di meno, toglie o dà diritti a chi lavora. Se avete notato, il re degli stilisti italiani, come chiamano Giorgio Armani, indossa sempre una tshirt e un pantalone, più o meno come Mark Zuckerberg, e ovviamente di ottima qualità. Sono entrambi la variante contemporanea della divisa che Mao aveva pensato per i suoi connazionali, giacca senza revers e tante tasche, pantaloni. Personalmente la soluzione mi attira. Pochi pezzi belli e intercambiabili, per liberare l’armadio e la testa. Poi una sera ogni tanto ci si può spettinare, in senso lato.

mariangela.mianiti@gmail.com