Il clima che cambia dipende anche dal cibo che mangiamo. Non è intuitivo collegare pranzi e cene all’afa estiva di Siracusa e alle inondazioni in Germania e nel Nord Italia. Ma il nesso esiste e in un’analisi pubblicata sulla rivista Nature a marzo del 2021 è tradotto in numeri: dal sistema alimentare dipende un terzo delle emissioni di gas serra. E i gas serra, dall’anidride carbonica al metano, sono come una coperta che avvolge la Terra e la scalda, la scalda sempre di più.
Non è più sufficiente pensare a petrolio e carbone per frenare le temperature del pianeta. Non basta, anche se aiuta, andare in giro in bici, comprare un’auto ibrida e ricordarsi di spegnere le luci.

La notizia ufficiale era arrivata già nel 2019 dagli oltre cento esperti del comitato scientifico delle Nazioni Unite, la Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico: nel rapporto scrivevano che il riscaldamento globale non potrà arrestarsi se non si provvederà anche a modificare quel che mangiamo e il modo in cui lo produciamo. Lo ha ribadito una ricerca apparsa su Science a novembre del 2020: anche se le emissioni di combustibili fossili venissero interrotte immediatamente, i gas serra che derivano dalle tavole mondiali renderebbero impossibile contenere il global warming entro quel grado e mezzo o due al di sopra dei livelli preindustriali, come prevede l’Accordo di Parigi sottoscritto da 195 governi per limitare da qui al 2030 la crescita della temperatura media.

Se invece si invertissero le tendenze attuali e si adottassero diete più ricche di vegetali, riducendo anche lo spreco, i risultati forse potrebbero essere raggiunti.
Si comprende perché l’Onu suggerisca con urgenza l’esperienza collettiva e privata di una food revolution. Una rivoluzione delle forchette.
L’aspetto straordinario è che la svolta ecologica a tavola fa bene anche a noi. Il cibo sostenibile non è altro che il cibo sano. Il cibo rispettoso della Terra è lo stesso che si dimostra gentile con la salute. Il cibo buono è universale: concilia l’ego e l’eco, parola che deriva dal greco òikos, casa, da cui il termine ecologia.

Verrebbe da commentare che la natura non dispone a casaccio. Non che abbia volontà propria, ma la natura è me, è voi, gli animali, gli insetti e le piante, e siamo tutti intrecciati da fili invisibili e siamo tutti di materia affine. Noi esseri umani però ci siamo messi a fare i re e scaldiamo l’atmosfera come se fosse la camera da letto. Con le nostre attività siamo arrivati a modificare il pianeta più dei processi naturali: incidiamo sul clima, sulle rocce, sui bordi degli oceani. Tanto che è stata definita Antropocene l’epoca geologica in cui viviamo, da anthropos, un’altra parola che deriva dal greco e che significa uomo.

Non è un passo mentale semplice immaginare che noi, creature fresche di un cosmo antichissimo, giungiamo a modificare gli assetti di un pianeta. Eppure, il soffio umano è incastonato negli intervalli geologici giganteschi, epoche dentro periodi, periodi dentro ere, ere dentro eoni. Siamo nell’età dei Sapiens. Ed è una responsabilità immensa.

Ciascuno di noi lascia un’impronta di carbonio sul pianeta, cioè in base a quel che fa e a quel che mangia emette gas serra. Le quantità che rilasciamo sono talmente grandi che per descriverle si usano le giga-tonnellate di anidride carbonica equivalente. Tonnellate gigantesche di catene di carbonio che vanno su. E «il carbonio è per sempre», come titolò con un certo senso dell’umorismo la rivista Nature, parafrasando una pubblicità di diamanti. Chiediamocelo: quante volte prendo l’aereo? Quanta acqua calda consumo? Ma anche: quante bistecche mangio alla settimana? Quanti prodotti alimentari pronti? Si pensa che a occuparsi del clima debba essere qualcun altro: il governo, gli organismi sovranazionali, le aziende. In realtà, ognuno di noi potrebbe contribuire, e i cambiamenti nell’alimentazione rappresentano uno dei modi più rapidi di alleggerire la propria impronta di carbonio.

Per una svolta ecologica e salutare a tavola basta tenere a mente due concetti facili. Il primo: seguire un’alimentazione con una base vegetale, il che non significa abolire la carne e i formaggi, ma concentrarsi sugli ortaggi, sui cereali, sulla frutta, sui legumi. Secondo: mangiare e cucinare più spesso ingredienti come li fornisce la natura, per esempio i pomodori, oppure cibi che siano solo minimamente lavorati, come i pelati in scatola. La merendina di mele con una lista spaventosa ingredienti non somiglia a una mela, il panzerotto surgelato agli spinaci non è come gli spinaci.

Per chi non lo sapesse, tra i modi principali in cui il sistema alimentare incide sul clima ci sono il tipo di digestione di mucche e pecore, il disboscamento in favore di agricoltura e pascolo, e poi la lavorazione industriale.
Negli stomaci dei ruminanti vivono alcuni batteri che fermentano i residui della digestione. Il prodotto di scarto di questo loro pasto è un gas serra, il metano, che viene poi liberato da ovini e bovini attraverso rutti e, in minima parte, flatulenza.

La domanda sorge spontanea: davvero si paragona il meteorismo di una mucca alla benzina delle macchine? Sì: le quantità di gas serra prodotte dal bestiame sono equivalenti alle emissioni di tutti i trasporti, secondo le stime della Fao. Come se non bastasse, si distruggono migliaia di ettari di foreste per lasciare spazio agli allevamenti intensivi o anche per coltivare palme da olio, da cui si ottiene quell’olio di palma che è usato per molti snack.

La rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un rapporto che impressiona: se gli occidentali riuscissero entro il 2050 a raddoppiare rispetto ai loro standard i consumi di vegetali e a dimezzare quelli di zuccheri, farine raffinate e carni rosse e trasformate, si frenerebbe il riscaldamento globale e si eviterebbero almeno 11 milioni e mezzo di morti premature all’anno dovute ad abitudini alimentari malsane. Noi siamo quello che mangiamo, diceva il filosofo Ludwig Feuerbach, e ora sappiamo che quello che mangiamo può cambiare il mondo.