Quando inizia l’annuale appuntamento con i Nobel, la maggior parte delle previsioni e anticipazioni solitamente viene smentita. Ma c’è una scommessa che potete star sicuri di vincere sempre: la stragrande maggioranza dei premiati sono uomini, e quando qualcuno lo fa osservare, l’immancabile risposta, degna del venditore di almanacchi di leopardiana memoria, è che le cose stanno migliorando e che il futuro saprà premiare le donne (e anche scienziati e scienziate del sud del mondo, ancora più assenti dal lungo elenco dei premiati sinora).
Anche il Nobel assegnato ieri, quello per la Medicina e la Fisiologia, ha rispettato ogni regola canonica: i premiati sono tre uomini, inglesi e americani, e in un campo che, salvo gli addetti ai lavori, pochi hanno saputo indovinare.

SI TRATTA degli statunitensi William Kaelin e Gregg Semenza e del britannico Peter Ratcliffe che hanno studiato il meccanismo che regola la reazione fisiologica in risposta alla disponibilità di ossigeno nel sangue. Per quanto molto tecnico, è un meccanismo chiave per il metabolismo cellulare e che è coinvolto in una miriade di processi fisiologici importantissimi: dall’affanno quando corriamo sulla cinta della palestra, a quello quando siamo in alta montagna, o l’apertura di una ferita, ma anche a come il nostro organismo risponde a malattie come l’anemia, l’infarto o il cancro, le cui cellule – come tutte le altre – hanno bisogno di ossigeno per sopravvivere.

E COME FANNO le cellule a garantirsi di ricevere la quantità adeguata di ossigeno? Attraverso quello che il Comitato del Nobel ha chiamato un «elegante interruttore molecolare»: attivando un programma di espressione genetica che fa sì che aumenti un ormone chiamato eritropoietina, o Epo, sintetizzato soprattutto dai reni, che aumenta la produzione di globuli rossi nel midollo osseo.
Ecco perché questo stesso ormone è utilizzato come sostanza dopante: gli atleti sani in questo modo possono assicurarsi che ai tessuti arrivi una maggiore quantità di ossigeno e quindi che migliorino le proprie prestazioni. Studiando il gene responsabile della sintesi dell’Epo, Semenza e Ratcliff si sono accorti negli anni Novanta che il sistema di rilevazione della presenza di ossigeno era presente in tutti i tessuti, e non solo nei reni.
I tre vincitori del Nobel, lavorando indipendentemente, sono stati in grado di identificare una serie di mediatori cellulari che spiegano il meccanismo attraverso il quale, a seconda della quantità di ossigeno presente nel sangue, viene prodotto un complesso proteico detto Hif (hypoxia-inducible factor) che è in grado di attivare il gene dell’Epo e altri geni, tra cui il gene Vhl. Quando invece il livello di ossigeno è normale, Hif viene degradata. Tutti i pezzi di questo complicato puzzle dipendono direttamente dalla presenza di ossigeno. Il merito dei tre ricercatori è stato quello di essere stati in grado di spiegare ciascuno degli step necessari perché il meccanismo molecolare, l’«interruttore», funzioni.

SECONDO IL COMITATO del Nobel, i tre hanno «ampliato enormemente la nostra conoscenza di come una risposta fisiologica rende la vita possibile». E se questo non fosse poco, questa ricerca evidentemente di base ha anche una serie di potenziali ambiti di applicazione di tipo medico. A parte per il funzionamento del sistema immunitario o lo sviluppo embrionale, un immediato esempio che salta agli occhi è quello relativo alla ricerca sul cancro. Per fermare lo sviluppo dei tumori, è da tempo che si studia l’angiogenesi, cioè la creazione di nuovi vasi sanguigni necessari a nutrire le cellule cancerose. Aver compreso nel dettaglio molecolare come funziona la relazione fra la presenza di ossigeno e i meccanismi fisiologici per la produzione di globuli rossi e di nuovi vasi sanguigni potrebbe dimostrarsi molto importante per questo approccio.
A questo proposito, però vale la pena leggere quanto scriveva uno dei nuovi laureati, William Kaelin, in un editoriale su Nature quando gli stessi tre scienziati ricevettero nel 2016 il premio Lasker (definito come una specie di «Nobel americano»). Ammonì contro gli articoli scientifici troppo pieni di dati e di affermazioni precipitose sui risultati futuri. «La maggior parte dei nostri articoli di più di 10 anni fa oggi sarebbe considerata impubblicabile perché troppo preliminare». Secondo Kaelin, «lo scopo di un paper è passato dal validare conclusioni scientifiche al presentare il più alto numero di affermazioni possibili».