Lo stile Juventus è avere una squadra forte che vince molto in Italia e una società organizzata che non ha eguali? Oppure è lo strapotere Fiat-Bianconero che da calciopoli ai favori arbitrali fino al recente caso Suarez non teme di corrompere?
Lo stile Juventus è vincere lo scudetto, licenziare Sarri e sostituirlo con Pirlo? In fondo i padroni si possono permettere sempre un margine di rischio. La Juve è globalizzata e non si identifica più con il capoluogo piemontese, dove c’è la Fiat e gli Agnelli. Negli anni ‘70 a Torino c’erano gli operai che facevano i picchetti a Mirafiori e tifavano Juventus, oggi c’è solo Ronaldo.
Siamo andati a Coverciano, un centro di formazione di eccellenza mondiale, dove la Juventus manda a formarsi i propri allenatori, ultimo Pirlo e i dirigenti della società. Abbiamo incontrato Felice Accame, docente di Teoria della Comunicazione presso il settore tecnico della Figc, che ci parla dello «Stile Juventus».

Chi sono quelli che la Juventus manda a Coverciano?
A Coverciano il personale inviato dalla Juventus per partecipare ai corsi, allenatori già contrattualizzati, preparatori atletici, direttori sportivi, hanno spesso qualcosa in più degli altri. Sono allievi modello, non fanno mai un’assenza, presentano delle tesi di grande interesse, frutto della propria opera, però di un’opera elaborata all’interno di una struttura che si è data molto da fare per facilitarli nell’elaborazione dei dati relativi. D’altra parte la Juventus è una delle poche società che analizza sé stessa dall’interno. Anni fa aveva un centro studi che produceva analisi sul proprio pubblico, mentre altri club, anche grandi, si rivolgevano a strutture esterne.

È lo stile Juventus?

Quanto allo «stile Juventus» ci sono alcuni aspetti di ordine epistemologico da chiarire. Stile viene da stilo, un piccolo oggetto di osso o di metallo con cui nell’antichità si incideva sulle tavolette di cera, quindi era legato alla scrittura, un’attività riservata a pochi, perché pochissime persone sapevano leggere e scrivere, per certi versi la scrittura come termine si lega alle classi elevate. Parlare di stile significa rivolgersi a classi elevate che hanno il buon gusto.

Per la Juve qual è l’elemento fondamentale?
La Juventus seleziona determinati elementi e dà loro tratti caratteristici. La selezione viene fatta secondo un processo di valorizzazione ben preciso, cerca nella forma dell’autorappresentazione che vuole dare di sé elementi connotati positivamente ed esclude quelli negativi.
Per la Juventus tra i fattori connotati negativamente c’è il rapporto con la Fiat, l’azienda di riferimento più o meno da quando è nata. È ovvio che si proietti sul marchio Juventus tutti quegli elementi che si addossano alla Fiat e alla sua presenza nel nostro Paese. La Fiat è ben lungi dall’essere un segno di valore positivo per gli italiani. Ricodiamo le grandi lotte operaie nei confronti della Fiat, lotte che avevano fondamenti importanti. La Fiat ha rappresentato il padronato, non dico la parte più retriva, ma sicuramente era poco disponibile al cambiamento, a venire incontro ai lavoratori. All’epoca di Valletta, c’era una forte repressione all’interno della casa automobilistica degli Agnelli. La Fiat in Italia ha rappresentato l’automobile, quindi lo scempio del paesaggio. L’autostradalizzazione del nostro Paese è dovuta al fatto che si dovevano vendere automobili, auto della Fiat innanzitutto.

C’è una strategia per far dimenticare?
La Juventus mette in atto una strategia ben precisa, secondo cui una serie di elementi negativi vengono dimenticati e fatti dimenticare per essere sostituiti da elementi positivi. Nella tesi presentata a Coverciano da un dirigente della società bianconera, ho notato che in alcuni contesti parla di Juventus, mentre nel momento in cui parla della squadra usa l’espressione
«la Juventus». Quando il dirigente parla dell’azienda usa il linguaggio aziendalista, cioè parla di Juventus senza l’articolo determinativo.

Tutto si gioca sull’articolo determinativo?
Può sembrare una sciocchezza, ma non lo è. Quando i dirigenti bianconeri dicono «Juventus» prendono le distanze rispetto al senso popolare del termine, è la distanza che intercorre tra coloro che ne possono parlare come consumatori della squadra del cuore e coloro che producono questo consumo. Ricordo che uno di loro usava l’espressione «Noi di Juventus». Eliminando l’articolo determinativo tolgono la consuetudinarietà e conferiscono al termine Juventus una nuova nobiltà.

È una nobiltà globalizzata?

Un dirigente della Juventus svolge un mestiere che non so quante altre società possano vantare. Nella tesi da poco discussa a Coverciano, fa un’analogia tra il suo lavoro e quello del ministro degli Esteri, opera su un territorio europeo ed extraeuropeo, stabilisce rapporti con le altre società e li consolida. Il suo lavoro consiste in visite e ricevimenti, ha circa cento rapporti all’anno con tutte le società di calcio, dalla Turchia al Kazakistan dal Medio Oriente al Sud Est asiatico. Egli va in questi Paesi e porta determinati saperi, poi riceve a Torino i rappresentanti delle società di calcio e risolve i loro problemi. Soddisfa le esigenze di queste società innanzitutto a livello conoscitivo, come se la Juventus fosse una sorta di comunità scientifica, mette a disposizione un sapere, fa il ministro degli Esteri della Juventus e relaziona su ogni incontro. Le relazioni sono scritte con l’occhio dell’antropologo. Lo stesso succede con gli osservatori della Juventus, che non si limitano a segnalare se uno calcia di sinistro o di destro, se si aiuta con le braccia nell’elevazione oppure se ha dei tempi di reazione adeguati. Per ogni giocatore che l’osservatore è andato a visionare per conto della Juventus, analizza i contesti in cui è nato, tutta la cultura da cui proviene. Le relazioni di osservazione che ho letto nella tesi di uno di loro, sono a uno stadio talmente avanzato che a volte si ha l’impressione di essere davanti all’analisi di un antropologo.

Che cos’ha in più la Juventus?
La Juventus arrivando prima degli altri, diventa in fretta modello per gli altri, anche se non è l’unica. Alla Juventus c’è una riflessione su sé stessa, che ci porta anche ad altre considerazioni. La società bianconera rifiuta completamente l’identificazione con una città. Uno di loro scriveva in una tesi che la società che rappresenta Torino, sia chiaro, è il Torino, la Juventus è rappresentata su scala planetaria. Mi chiedo quanto abbia determinato la necessità di categorizzarsi da parte della Juventus perché qualcuno, come stiamo facendo noi adesso, possa parlare dello «stile Juventus»? Non è facile stabilire un confine netto tra quello che proviene da sé in forma proiettiva verso l’esterno e quello che dall’esterno arriva verso di te, anzi direi che l’uno ingenera costantemente l’altro in una sorta di circolo vizioso.

L’azienda Fiat incide molto o lo stile Juventus è separato?
Penso che sia separato. C’è una certa abilità a partire dalla più tenera età. Se analizziamo gli studi fatti dalla Juventus per le loro scuole calcio, quelle dei bambini, rileviamo che sono tutte impostate su un processo identitario fondamentale. Certo per una società di calcio che ha una base così ampia di tifosi è ben difficile smarcarsi dalla Fiat, che nel rapporto tra capitale e lavoratori ha rappresentato per lunghi anni quanto di più antipopolare ci possa essere nel nostro Paese. «Stile Juventus» vuol dire ordine, rispetto delle gerarchie, nel momento in cui la Juventus viene associata alla Fiat dove sta la capacità rivoluzionaria della società, l’ordine, l’organizzazione? La dimensione globale della Juventus, la stessa questione del «ministro degli Esteri», sono il risultato di un certo investimento di proiezione, che alla fine porta ad anticipare determinate cose, mentre le altre società di calcio si limitano a gestire il presente. La Juventus in quanto azienda globalizzata, riesce ad acquisire una sua autonomia completa e nell’autorappresentarsi alimenta profezie che poi si autodeterminano.