Che la morte di George Floyd negli Usa (e le successive settimane di protesta di Black Lives Matter) abbia scatenato nel nostro paese un’attenzione e un dibattito maggiore di quanto non abbiano fatto casi similari nostrani (come l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi a Fermo, per citarne uno, con le dovute differenze), la dice lunga su quanto nel nostro paese la questione razziale sia ancora una sorta di spinoso tabù nel panorama pubblico culturale, sociale e politico.

In Italia, la cittadinanza pare essere ancora appannaggio di una (illusoriamente) omologata popolazione bianca e caucasica: gli immigrati regolari e stabilizzati, anche quando contribuenti fiscali, sono costretti a barcamenarsi all’infinito con carte di soggiorno per soggiornanti di lungo termine (che permettono allo stato di incamerare senza concedere) e per avere la naturalizzazione, oltre a lunghe ed estenuanti trafile, bisogna dimostrare un determinato reddito, escludendo di fatto la maggior parte di quanti aspirino ad ottenerla, per non parlare delle accese polemiche che si risvegliano ogniqualvolta si riaffacci la proposta di riformare i requisiti e diritti alla cittadinanza, come il famigerato quanto vituperato ius soli, mettendo in luce la mancanza di un pensiero istituzionale coerente e tutti i paradossi e le lacune della nostra legislazione e burocrazia.

Questo il fulcro attorno a cui ruota il saggio/memoir di Nadeesha Uyangoda (L’unica persona nera nella stanza, 66thand2nd, pp. 173 pagine, euro 15), giovane brianzola nata in Sri Lanka, che in un’intersezione di generi raccoglie le sue esperienze di figlia di immigrati, nel giornalismo e come attivista, e quelle di altri giovani “italiani di colore”, cresciuti come lei con un senso di non appartenenza e una differenza apparente, che li ha sempre resi le “uniche persone nere nella stanza”, invisibili e sotto-rappresentate per certi versi, scomode e indesiderate per altri. A partire dalla questione prettamente terminologica, che pone imbarazzi e reticenze: la maggior parte dei termini impiegati viene dall’inglese, non avendo ancora noi raggiunto lo sviluppo multiculturale che possono vantare paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, dove se ne discute invece da più tempo e si è raggiunto un linguaggio più inclusivo, seppur sempre problematico.

Quando parliamo di persone nere, ad esempio, in Italia non si sa bene a chi ci si riferisca (forse provocatoriamente, qui si sostiene che siano neri anche i cinesi, gli albanesi, i rumeni), e l’aggettivo stesso rientra in una gamma di variazioni più o meno inadeguate, che hanno individuato nelle locuzioni “di colore” o “appartenenti ad una minoranza etnica” forme apparentemente più gentili, politicamente corrette e “meno offensive”.

Con dovizia di informazione, nel testo si passano in rassegna le casistiche, le situazioni ricorrenti e le problematiche comuni a chi come l’autrice si ritrova suo malgrado relegato in contenitori restrittivi e ghettizzanti, dai pregiudizi quotidiani al dilagante “razzismo inconsapevole”, dalla quasi assenza sui media e nei ruoli di potere alla stereotipizzazione laddove si introducano “quote di rappresentanza” a feticcio della diversità e pretesa di inclusione, con il goffo e spesso imbarazzante risultato di rendere straordinario qualcosa che non dovrebbe esserlo.

Guardando ancora una volta a modelli d’oltremare, Uyangoda cita tra le sue autrici preferite Zadie Smith e Chimamanda Ngozi Adichie, paladine dell’antirazzismo e della contronarrazione, ma anche proponenti di discorsi e battaglie intersezionali che abbraccino razza, genere e classe (illuminante in tal senso We Should All Be Feminist della Adichie), suggerendo come anche il Italia il privilegio bianco delle lotte femministe, dovrebbe essere sfruttato per occuparsi anche delle istanze delle minoranze. La buona notizia che ultimamente le cose si stiano muovendo, e che negli ultimi anni se non mesi si stia assistendo ad un’accelerazione e crescita esponenziale di discussione, denuncia, attenzione e consapevolezza, accende la speranza che in un futuro auspicabilmente non troppo lontano, un libro come questo non abbia più ragione di essere scritto.