Lo scorso aprile è uscito The Future Never Waits, nuovo album dei londinesi Hawkwind, ininterrottamente attivi dal 1969: è il loro trentacinquesimo realizzato in studio a un anno di distanza dal doppio live We Are Looking in on You e a due anni da Somnia dai grandi riscontri critici.

Fra i brani inseriti spicca un titolo – Aldous Huxley – che è un palese riferimento allo scrittore filosofo britannico (1894-1963) in grado di orientarsi tra umanesimo e pacifismo, parapsicologia e spiritualità, e soprattutto science fiction e droghe psichedeliche. Ma, per i rapporti fra musica e scienza, occorre riferirsi a trent’anni fa quando il gruppo ridotto a trio, pubblica It Is the Business of the Future to Be Dangerous (1993), diciottesimo «manifesto» di un gruppo da sempre ritenuto il maggior esponente del rock spaziale, fautore di capolavori assoluti dal secondo In Search of Space (1971) al live Space Ritual (1973).

NEL 1993

Dunque, nel 1993, sono i primi a usare, come titolo, una frase di uno scienziato, che, tradotta, vuol dire «è compito del futuro essere pericoloso». Ma il concetto è incompleto giacché, proprio nelle note di copertina del citato Space Ritual il periodo viene usato per intero con il seguito: «ed è tra i meriti della scienza quello di relazionarsi al futuro per quel che le serve». L’espressione arriva dal volume La scienza e il mondo moderno di Alfred Whitehead (1861-1947), matematico e filosofo che per tutta la vita si occupa anche di logica, fisica, epistemologia, teologia, metafisica, spesso lavorando assieme al grande pensatore pacifista Bertrand Russell. Nell’affrontare, mediante i testi lirici o il concept-album, precipue questioni fantascientifiche, gli Hawkwind cercando anche nelle sonorità qualcosa di avveniristico, riuscendo non solo a imporsi quale band originalissima, ma persino a influenzare, con i primi lavori hanno diverse realtà musicali, ad esempio la new wave e l’heavy metal, finendo per essere giustamente ritenuti l’anello di congiunzione tra la cultura hippy e quella punk.

PASSO DECISIVO

Anche in It Is the Business of the Future to Be Dangerous, l’importanza accordata al linguaggio musicale risulta decisiva nella scelta di introdurre, sempre su una base rock, la techno, l’ambient, la trance music.

La musica degli Hawkwind quindi fa quasi da score o da pendant sia al libro The Jazz of Physics (2017) di Stephon Alexander (Brown University, Rhode Islands) ispirato da Interstellar Space (1967) di John Coltrane a sua volta incuriosito da Albert Einstein, sia al progetto Quantum Music (2019-2021) dell’Istituto di Musicologia SASA di Belgrado dove, dal 2004, fisici e musicisti lavorano assieme per unire «i misteriosi mondi della fisica quantistica e della musica per la prima volta». In realtà una «prima volta» risale a oltre 2500 anni fa, se si considerano più in generale i rapporti fra musica, scienze e matematica. E la prima star a occuparsene – stando a quanto documentato, anche se alcune enigmatiche immagini di ben più antiche civiltà, come gli Egizi, farebbero pensare a ulteriori illustri precedenti – è il filosofo/matematico Pitagora, appassionato di musica (o forse anch’egli suonatore/compositore per diletto): il pensatore, che a Crotone fonda la Scuola Pitagorica (la prima in senso «moderno»), collega la musica via via al corpo umano, ai numeri e all’astronomia, intuendo che le campane (usate assieme agli strumenti a percussione) e le corde (della lira o cetra) producono note diverse in base alla grandezza e al numero e alla lunghezza di esse stesse. Saranno molti gli intellettuali, nei secoli successivi, ad approfondire le idee di Pitagora, ma per la musica occorre aspettare circa un millennio per trovare De institutione Musica di Severino Boezio, autentico trattato di teoria musicale, corredato pure da immagini come quella, assai lungimirante, dove vengono «disegnati» sia gli intervalli sia i rapporti fra le note, un po’ come succede nel testo Theorica Musicae (1492) del lodigiano Franchino Gaffurio con l’aggiunta dell’immagine di Pitagora intento, con la bacchetta, a suonare cinque diverse campanelle, allineate in ordine di grandezza da sinistra a destra.

Da allora le scienze (più o meno «esatte») entrano nell’ordine delle cose musicali soprattutto attraverso gli studi di astronomia: fin dall’antichità sono in molti a essere convinti dell’esistenza di forti legami tra le forme della musica e il movimento dei pianeti; è solo però con Giovanni Keplero, un eclettico intellettuale tedesco che nel 1619 con il trattato Harmonices Mundi analizza l’armonia delle sfere, dove, convinto che Dio non sia solo «geometra» ma pure «musico», sostiene l’idea che la musica e il sistema solare risultino manifestazioni della stessa armonia, quasi come se le posizioni dei vari pianeti, similmente ai tasti di un organo, debbano corrispondere alle note delle partiture occidentali. Tra l’altro un’inquietante esegesi del moto dei pianeti kepleriano è inclusa nei Golden Records sui Voyager 1 e 2 in viaggio oltre il sistema solare.

Nel Settecento, in Gran Bretagna, due casi esemplari confermano quella che viene definita l’epoca dei Lumi, anche nella dialettica tra musica e scienza; c’è chi, all’inizio, del secolo, come Francis Newton arriva a osservare come la luce passata in un prisma si scompone in sette colori, a cui egli attribuisce le note dello spartito, arrivando a un diagramma note/colori che inseguito, quasi due secoli dopo, interesserà il compositore russo Alexander Scrjabin; e c’è addirittura chi come William Herschel, tedesco naturalizzato inglese, che dalla musica approda all’astronomia: dopo una notevole fama di solista (oboe e violino) dirige i propri interessi da autodidatta verso lo studio degli astri, arrivando a descrivere la tridimensionalità della Via Lattea che gli vale numerosi premi oltre il titolo di Baronetto. Con l’inizio del XX secolo i progressi scientifici incitano diversi artisti a omaggiare le nuove scoperte: il compositore inglese Gustav Holst, affascinato dalle immagini del sistema solare, scrive la suite in sette parti I Pianeti. Op. 32 (1914-1916), ovverosia nell’ordine di esecuzione: Marte, il portatore di guerra; Venere, il portatore di pace; Mercurio, il Messaggero Alato; Giove, il portatore di allegria; Saturno, il Portatore della Vecchiaia; Urano, il Mago; Nettuno, il mistico.

UN EPILOGO

Nettuno il più lontano, e al tempo l’ultimo conosciuto, viene appositamente «musicato» con le note che, nell’epilogo, sfumano fino al silenzio, come a dire che ulteriori ricerche saranno possibili o auspicabili; per il resto, la partitura ascrivibile concettualmente ai cosiddetti poemi sinfonici guarda più al carattere astrologico che astrofisico di ogni pianeta, anche per il fatto che l’autore è più interessato alla teosofia che alle moderne tecnologie che, a loro volta, nel frattempo, stanno ribaltando il modo stesso di fare e concepire la musica.

Sono infatti via via telefono, microfono a carbone, fonografo, grammofono, telegrafo (e scoperta degli elettroni) a inaugurare, già a fine Ottocento l’alba di una maniera assolutamente inedita di favorire e percepire il suono, influenzando di conseguenza sia la riproducibilità sia la fruizione della musica stessa, come sostiene Johann Merrick, unica, oggi, in Italia, a occuparsi di storia della musica elettronica. Quest’ultima, più o meno direttamente, è figlia del Positivismo inteso quale sviluppo delle scienze, della matematica, della fisica, persino della filosofia a fin di bene con presupposti oggettivi. E positivista è l’atteggiamento di Johann Baptist Schalkenbach, inventore e musicista che nel 1861 combina elettricità e musica in un apparecchio in grado di controllare meccanicamente una moltitudine di strumenti ed effetti sonori: il brevetto del Piano Orchestre, perfezionato in Piano Orchestra With Eletric Motion e in Orchestre Militaire Electro-Moteur è il primo di una lunga serie di macchine antesignane degli attuali computer miniaturizzati.

Tuttavia nella storia della musica a onor del vero l’oggetto che segna uno spartiacque nella creatività acustica risulta un aggeggio meccanico: l’Intonarumori (1913) del futurista veneziano Luigi Russolo; è semplicemente formato da generatori di suoni acustici che consentono il controllo della dinamica, del volume, della frequenza di molte tipologie sonore che, nelle intenzioni dell’autore, devono esprimere lo stile di vita sensoriale delle moderne metropoli. Pur rimasto a lungo senza eredi, l’Intonarumori e quanto di teorico Russolo sviluppa attorno a esso verrà riconosciuto fondamentale dalle successive generazioni di musicisti elettronici ed elettroacustici di estrazione colta e ruotanti, soprattutto nel secondo Novecento, attorno alle esperienze della musique concréte, della musica elettronica, del gesto aleatorio, della cybernetic music.

Da allora a oggi esistono addirittura intere correnti musicali, persino nella popular music, che fanno riferimento ad avveniristici legami tra musica e scienza: lo space age pop statunitense, lo space rock britannico, la musica cosmica tedesca, l’afrofuturismo afroamericano, senza contare una parte di colonne sonore nei film science-fiction o diversi aspetti della techno odierna. Ma questa è una storia già raccontata, seppur in altre dimensioni.

INCONTRI – GABRIELLA GREISON

«Perché alla fine la fisica è come la musica. E, come per i musicisti, continuare a praticarla, sempre, in modo incessante, logora, stanca, ti fa stare completamente fuori dal mondo. Prendete per esempio David Bowie. Lui disse che la musica era la sua religione. Iniziò a suonare il sassofono da piccolo, poi divenne solista. Anzi, divenne il più grande solista di musica rock per cinque decenni. Ma anche David Bowie una pausa della sua attività spirituale se l’è presa: a un certo punto ha fatto il pittore, e persino l’attore di cinema, lavorando per grandi registi (…)».

A dirlo non è uno storico di popular music, bensì un fisico nucleare, Gabriella Greison, milanese, già docente e ricercatrice, oggi attrice, drammaturga e forse influencer proprio sui temi della divulgazione scientifica. L’estratto difatti è all’inizio del nuovo libro Ogni cosa è collegata (Mondadori, 2023) dove indaga i rapporti tra il fisico Wolfgang Pauli e lo psicanalista Carl Gustav Jung nella Zurigo degli anni Trenta, per riconsiderare, come suggerisce il sottotitolo «la fisica quantistica, la sincronicità, l’amore e tutto il resto».

La vita del geniale austriaco Pauli (1900-1958) – nel 1945 Premio Nobel per la tesi secondo cui due elettroni in un atomo non possono avere tutti i numeri quantici uguali – assomiglia al comportamento di molte rockstar, «genio e sregolatezza»: concentratissimo sul lavoro di pomeriggio, trascorre la sera nei quartieri malfamati, trangugiando ettolitri di vino e cercando l’amore tra le prostitute dei tanti bordelli a basso costo.

Tuttavia Pauli, nei momenti di lucidità, capisce per primo che è ora di trovare punti di contatto tra la scienza dei quanti quella che si occupa della psiche umana, un po’ come, circa un secolo dopo, Gabriella intuisce che è giunto il momento di parlare a tutti di fisica anche mediante il suono dei giovani; ed è per questo, grazie a una recente intensa attività, che da un prestigioso giornale americano viene indicata come la «rockstar della fisica quantistica», un complimento che la lusinga: «Mi dà l’impressione che abbiano capito in che modo io pensi. Per me la fisica va spiegata dal vivo, trattata dal vivo, amata dal vivo, proprio come il rock. Chi si nasconde dietro le spiegazioni da studio, come si fa per la musica elettronica, non si vive appieno questa straordinaria esperienza. Se recinti la fisica, specie quella quantistica, nei libri, è come guardare un concerto di Bruce Springsteen sullo smartphone. Impeccabile, energetico, suonato a regola d’arte. Ma la botta alla pancia, non te la dà. La fisica va raccontata con passione, per farla suonare nelle orecchie di chi ascolta come un giro di basso potente durante una rullata di una batteria».

Resta da scoprire cosa esista in Gabriella Greison della fisica (scienziata) e cosa della rock girl: «Entrambe le parti sono vive e vitali. Convivono e si danno il cinque come i wrestler. Fisica di giorno e rock girl di notte, come Batman. Solo che, nel convivere nella stessa testa, a volte la fisica va ai concerti rock, li analizza, ne scopre il flusso e converte le luci e i suoni in onde e particelle e a volte la rock girl parla di fisica quantistica saltando sui tavoli come farebbe Angus degli AC/DC durante un assolo della sua ’diavoletto’».

Arduo quindi stabilire a priori in quale dei due ruoli si identifichi maggiormente: «Come ti dicevo, in entrambi i ruoli. Non c’era la scienziata al concerto dei Rammstein, c’è andata solo la rock girl, pogando e saltando come un elettrone che salta in un orbitale superiore e assorbendo energia sotto forma di fotone. Ma una volta fuori dal concerto, ecco la scienziata che torna ad analizzare quello che è successo e com’è successo. Sono una Dr. Jekyll e Mr. Hyde del rock o della fisica. E, bada bene, ho detto sono e non mi identifico. Perché il segreto è essere le proprie passioni, tuffarvicisi dentro e cavalcarle come mustang».

Decisiva risulta anche la narrazione su come Gabriella si avvicini al rock: «Mi ha cercato lui! È venuto a bussare nelle mie orecchie da piccola, non piccolissima, ma piuttosto giovane. Grazie a quel suono che arrivava da una radio fuori sintonia, mi sono abituata a climi più ruvidi. Ho scoperto durante gli studi che il rock aiuta a concentrarsi. I 120 battiti al minuto, quelli di Drive My Car dei Beatles per intenderci o di I’m on Fire di Springsteen, mi davano un ritmo doppio di lettura ed efficienza durante gli esami. Poi ho scoperto la lettura veloce e ora posso leggere al ritmo di Basket Case dei Green Day ed essere rilassata. Insomma, il rock mi ha dato la chiave di accesso a un mio modo di intendere la disciplina dell’apprendimento e ora dell’approfondimento e della ricerca. Dio salvi il rock!».

Il passo successivo è riuscire a collegare musica rock e fisica quantistica: «Mi rifaccio alle domande che sono spesso contenute nei brani, per esempio. Sono spesso domande esistenziali come ’dovrei restare o dovrei andarmene’ dei Clash o ’è questa la vita vera o è solo fantasia’ dei Queen. Domande a cui la fisica quantistica dà risposte sorprendentemente esaurienti. E poi ci sono i suoni, le distorsioni, le ispirazioni delle melodie, i concept album. Tutti percorsi che, visti dal punto di vista dell’infinitamente piccolo, riportano verso mete meravigliosamente quantistiche e spiazzanti».

Al momento lo sbocco di queste ricerche va ben oltre i libri o i laboratori, perché si tratta di un fenomeno da nuovi media di grande successo: «Il Jukebox della fisica – risposte scientifiche alle domande delle canzoni è una serie che ho creato sui miei social, Instagram e TikTok. L’ho creata con Alessio Tagliento, un riferimento della comicità in Italia. Ci divertiamo come matti a creare queste mie risposte scientifiche ai grandi dilemmi dei cantanti. Prendo seriamente i loro punti di domanda nelle canzoni, e questo fa molto ridere».

In effetti questo jukebox è una novità assoluta sotto il quadruplo profilo della divulgazione scientifica, della critica musicale, della comicità istantanea, del linguaggio audiovisivo: «Il Jukebox della fisica è ascolto, prima di tutto. Io ascolto un brano rock (anche pop, spesso) e colgo un interrogativo, un dubbio, che sbatte i piedi al ritmo della musica pregando di venire chiarito. Bene, quello è il momento in cui mi faccio prendere dalla passione accademica, reinterpreto quella domanda sotto un profilo scientifico e rispondo all’interprete come se la domanda fosse stata rivolta a me».

Resta ancora da sciogliere il dubbio, forse assai poco scientifico, sul perché del rimando a un oggetto obsoleto – il jukebox – dal 1933 diffuso in bar e locali pubblici degli Stati Uniti grazie alla ditta tedesco-americana Rudolph Wurlitzer Company e caduto nel dimenticatoio con l’avvento del cd e delle cuffiette. «L’ho chiamato Jukebox – continua Greison – perché le domande fanno il rumore delle monete nel jukebox, quando mi entrano nel cervello. Sono quasi delle folgorazioni. E allora sento il brano e rispondo di getto. Ci ho messo mesi per raccogliere le canzoni più disparate che contengono domande. Se ne avete segnalatemele, che devo rispondere io a tutte, una ad una».

Con questo Jukebox, Greison sta aprendo un campo dalle quasi infinite possibilità sulle tipologie di rapporti esistenti tra rock (e musica in genere) e la fisica (o la scienza in generale), di cui lei stessa è la prima ad averne piena consapevolezza: «Tanti di quei rapporti, diretti e indiretti, da scriverne un sacco di libri. Cominciando dai protagonisti: Dexter Holland, il cantante degli Offspring, è un biologo molecolare, Brian May ha un dottorato in astrofisica. E poi le ispirazioni, le tematiche, le grandi domande. Syncronicity dei Police si rifà a Jung che si rifà a Pauli. La copertina di The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd è la scomposizione della luce da parte del prisma, in Strangeness and Charm, Florence and the Machine parlano di particelle atomiche… E poi ci sono i legami indiretti, come l’uso della tecnologia per ottenere i suoni che sentiamo e i missaggi di cui possiamo godere. Tutto grazie alla fisica quantistica che ci porta ogni giorno più avanti, specie nell’elettronica».

A rileggere il rock o qualsiasi altro linguaggio sonoro attraverso la lenta della fisica quantistica o di un’analisi laboratoriale si scoprono molti brani in cui i temi scientifici vengono affrontati «seriamente» e altri invece dove le conoscenze sono pari a zero o sottozero: «Come in Before and after Science di Brian Eno, la scienza non deve essere spiegata in quanto tale, ma deve aleggiare tra le note per dare veridicità al contenuto. Non è strettamente necessario che nel brano ci sia una coerenza evidente tra il tema trattato e la sua ispirazione scientifica. L’importante è che la scienza abbia dato modo all’artista di compiere un prodigio dell’anima partendo da ciò che prodigio non è e cioè la scienza stessa. Astronomy Domine dei Pink Floyd parte da un pensiero scientifico, Lux Aeterna dei Metallica ha un sacco di riferimenti alla luce e alla sua velocità. Poi accade come in Don’t Stop Me Now dei Queen dove le leggi della fisica se ne vanno a farsi fottere in cambio del divertimento di viaggiare alla velocità della luce».

E magari, a questo punto, non c’è nemmeno bisogno di chissà quali sforzi per far sì che la fisica può aiutare la musica o viceversa: «Nessuna delle due ha bisogno dell’aiuto consapevole dell’altra. Collaborano già da sempre, senza averne necessariamente coscienza».