È tornato in libreria, in una nuova edizione aggiornata, Quando hanno aperto la cella, di Luigi Manconi e Valentina Calderone (il Saggiatore, pp. 262, euro 12). Il libro, come osserva giustamente Gustavo Zagrebelsky in una delle due prefazioni (l’altra è di Alessandro Bergonzoni), squarcia un velo «sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta»: lo squarciava già nell’edizione originaria, risalente al 2011, e lo fa tuttora, perché «perlopiù sconosciuta» è la vita del nostro paese nella dimensione dei rapporti fra il cittadino e le istituzioni depositarie del potere di limitarne la libertà e di esercitare la repressione.
Di questo, infatti, ci parla il libro: di persone morte nelle carceri, nelle questure, negli ospedali psichiatrici giudiziari. Di persone che entrano vive nelle une o negli altri, e ne escono morte. Di destini personali ma esemplari al tempo stesso, perché non si tratta solo di storie di individui che il comune sentire è spesso incline a considerare marginali o sovversivi: quasi che la morte di un individuo definibile come marginale fosse tale a sua volta, nel flusso delle nostre esistenze di cittadini ben piantati nella società. No: si tratta invece anche di storie che assomigliano in tutto per tutto a quella di chiunque. La vita di chiunque, ci dice quindi Quando hanno aperto la cella, potrebbe improvvisamente rivelarsi nella sua debolezza e fragilità e rimanere, nuda, esposta alla sopraffazione e alla violenza – oltretutto a una violenza, quale quella di Stato, contro la quale non esiste difesa, proprio perché esercitata da chi alla brutalità dovrebbe, al contrario, porre istituzionalmente rimedio. Sopra lo Stato esiste solo lo Stato; ma se è lo Stato stesso, quando siamo nelle sue mani, a violare letteralmente la nostra incolumità, fisica e non solo morale, a chi ci rimane da chiedere protezione?
Nelle bellissime pagine introduttive, di carattere generale, Luigi Manconi e Valentina Calderone individuano almeno due elementi comuni a tutte le vicende raccontate. Il primo è rappresentato da una tendenza, rivelata da ciascuna di queste storie, «verso un più ampio e articolato sistema del controllo sociale formale-istituzionale», a «conferma del fatto che sembra estendersi l’area, diventata unica e omogenea, delle istituzioni e delle misure finalizzate alla repressione della devianza o della irregolarità e marginalità sociale». Ed è una tendenza ulteriormente aggravata da un analogo progressivo ampliamento dell’area di marginalità, per effetto del quale l’essere portatori di una qualunque forma di disagio fisico o mentale diventa infine un elemento di colpa in sé e per sé, come dimostrano bene ad esempio le parole che Carlo Giovanardi, all’epoca sottosegretario con delega alla famiglia e alle tossicodipendenze, aveva pronunciato nel 2009 a poche settimane dalla morte di Stefano Cucchi, definendolo «anoressico tossicodipendente», «larva zombie».
Tutto ciò, suggeriscono gli autori, non è il frutto necessariamente di una strategia consapevole, bensì di un clima culturale che influenza non solo le azioni dei governi ma anche il comune sentire e lo sguardo sugli altri della pubblica opinione; e non a caso le carceri e gli ospedali psichiatrici giudiziari, sempre più, si stanno spogliando di finalità rieducatrici e risocializzanti e permangono come luoghi in cui, secondo la celeberrima formula di Foucault, si può e si deve solo sorvegliare e punire (su questo hanno scritto pagine illuminanti Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, nel loro recente Oltre la paura). Se Quando hanno aperto la cella squarcia un velo su realtà poco conosciute, insomma, è proprio perché costringe chi lo legge a guardare all’interno di questi luoghi e a scoprirvi i propri timori e ossessioni rimosse.
Ma c’è anche un elemento virtuoso comune a quasi tutte le storie narrate dal libro, ed è il protagonismo femminile che le contraddistingue: sono, infatti, loro ad assumere, quasi sempre, il ruolo e il peso delle testimoni. Madri, mogli e compagne, figlie, sorelle: sono loro a far conoscere le storie di violenza subìte dai familiari e poi a combattere contro l’omertà che altrimenti le coprirebbe e le oblierebbe, in nome però non di un desiderio di vendetta o dell’invocazione della pena per la pena, ma di un’aspirazione alla verità che Luigi Manconi e Valentina Calderone definiscono, evocando Antigone (nell’interpretazione offertane in particolare da Massimo Cacciari), «tragica» e «politica» tout court, perché «il loro dolore più intimo» viene tramutato «in una risorsa pubblica». E, forse, solo le donne potevano e possono essere capaci di una simile «elaborazione pubblica del lutto». Hanno ragione Manconi e Calderone, essendo le donne, come già osservava Virginia Woolf (ricordata di recente da Nadia Fusini, a questo riguardo, nel suo bellissimo Hannah e le altre), dotate di un «altro sguardo».
Ma, infine, è alle storie nude e crude, alle singole biografie personali che risulta dedicata la parte più cospicua di Quando hanno aperto la cella; ed è anche in questo lasciar parlare i fatti la potenza del volume, pure al di fuori di qualunque considerazione teorica e generale. Le storie sono tante, e non sono tutte. Alcune hanno ormai il valore di simboli: come quella di Giuseppe Pinelli o di Franco Serantini, al quale molti anni fa Corrado Stajano aveva dedicato un libro memorabile (Il sovversivo).
Erano altri tempi, ma ad allora Manconi e Calderone fanno risalire una decisiva mutazione della «tipologia della mobilitazione sociale» e della «fisionomia dei suoi attori», per effetto della quale cambiò anche, di riflesso, «l’atteggiamento e la cultura degli apparati titolari del monopolio legittimo della forza»; e se è vero, come si è detto, che ogni storia di violenza istituzionale è figlia di un clima culturale, è di questa mutata cultura che le storie di violenza successive a quelle di Pinelli o Serantini sono ancor oggi conseguenza. La storia di Federico Aldrovandi, ad esempio, o di Michele Ferrulli, di Marcello Lonzi, di Katiuscia Favero, di Aldo Bianzino, di Giuseppe Uva, di Francesco Mastrogiovanni, di Stefano Cucchi; e molte altre ancora.
Alcune sono note, di cui si molto è parlato, altre meno. Tutte sono identiche tanto nella loro drammaticità quanto nella loro opacità: la fine è sempre conosciuta, perché ciascuna di queste vicende si conclude con la morte del protagonista, ma le cause e le circostanze di quel decesso non sono mai chiare. Molto spesso la morte appare come un suicidio, ma poi le cose non tornano. Altre volte, appare la conseguenza di una patologia pregressa o congenita, ma neppure così è tutto spiegabile, anche perché ai segni dell’apparente suicidio si accompagnano quasi sempre altri segni, di lesioni e percosse subìte.
E mai, nelle storie raccontate, mai lo Stato – indipendentemente dalla responsabilità morale o giuridica dei suoi rappresentanti, di volta in volta – si mostra compassionevole nei confronti dei familiari, cui la morte viene sempre comunicata, nella migliore delle ipotesi, in toni rigidamente burocratici. Basti dire del modo in cui la morte di Stefano Cucchi venne comunicata a sua madre: attraverso la notifica del decreto del pubblico ministero che autorizzava la nomina di un consulente di parte per l’autopsia.
Mai, infine, la sede giudiziaria ha rappresentato una risposta adeguata alle istanze di giustizia dei familiari, dei sopravvissuti; e, per certi versi, non bisogna stupirsi, se il processo è il luogo dell’applicazione delle norme di diritto, che sono fredde (anche senza voler arrivare ad aggiungere, con Simone Weil, che inoltre si fondano sulla forza), e della giustizia formale, la quale non sempre coincide con la giustizia sostanziale. Ma rimane allora e comunque il dato, doloroso, dell’incapacità dello Stato di offrire altri luoghi, altri spazi a queste istanze «tragiche» e «politiche».