Ondata, marea, emersione, immersione: la storia del femminismo si racconta spesso con metafore liquide come un moto ondivago di vite e idee che appaiono e scompaiono ciclicamente, che si dissolvono e si riaggregano in forme nuove. In un’edizione del TFF in cui il rapporto tra cinema militante femminista del passato e del presente attraversa come un fiume carsico diverse sezioni, è proprio dalla superficie tesa di un bacino acquatico che prende avvio Undead voices di Maria Iorio e Raphaël Cuomo proiettato nel focus TFFdoc/noi a cura di Davide Oberto, percorso di film «che attraversano il tempo e lo spazio per immaginare un tempo e uno spazio ancora ignoti». Nell’incipit di Undead voices, il pelo dell’acqua è una pellicola su cui si rifrangono luci e ombre dando forma a presenze fantasmatiche. Ma l’illusione metaforica non può far dimenticare quanto l’umidità sia devastante per l’emulsione fotosensibile su cui si imprimono le immagini di celluloide.

Con la propria opera, la coppia di artisti cerca infatti di restituire sostanza alle presenze cancellate o appena percettibili nei frammenti di una pellicola aggredita dal tempo e dall’umidità: Donne emergete! (1975) di Isabella Bruno.

Acquisito tramite Annamaria Licciardello dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa – Cineteca Nazionale (Ivrea), che lo ha digitalizzato, quel film amatoriale in super 8 è oggi talmente rovinato da risultare improiettabile. Iorio e Cuomo, che hanno realizzato la loro opera nell’ambito del progetto «Beyond Archive» di Careof e ANCI, mostrano le operazioni di analisi del supporto e gli effetti che l’emarginazione di quel «cinema minore» ha avuto su un documento nato nel cuore della contestazione. Vuoti, chiazze di colore da cui sono indistinguibili figure e poi all’improvviso qualche immagine più definita da cui si comprende l’operazione estetica di Bruno: sequenze sfocate e indistinte che pian piano lasciano emergere soggetti, manifestazioni, assemblee, riunioni, cartelli ai cortei quali «l’emancipazione serve all’uomo, la liberazione è per tutti».

Iorio e Cuomo montano quei frammenti con repertori industriali di operaie al lavoro nel tessile e fotogrammi di Donne di servizio (1953) di Giulio Questi. Il potere rievocativo del cinema riporta a galla dal fondo del tempo le «non morte» mentre la cantante Alessandra Eramo e A Frei aka DJ Fred Hystère fanno risuonare su un tappeto elettronico le note di un brano scritto nel 1975 da Yuki Maraini: «ricordatevi di noi/siamo morte ma non per sempre/noi vivremo eternamente/finché durerà la lotta/siamo state assassinate per avere scioperato/voi dovete vendicarci/vendicarci con il lottare/vendicarci con il creare/creare un mondo nuovo/un mondo vivo, di giustizia, di eguaglianza/un mondo di libertà». Il canto richiama alla coscienza interrogativi mai sopiti, nella denuncia di allora riecheggiano le ingiustizie di oggi, nell’intreccio tra passato e presente, tra il suono digitale e la canzone su vinile, il cinema trasforma la pellicola derelitta nella possibilità di riscoprire una filmmaker e il contesto in cui creò.

Dalla metà degli anni Settanta, Isabella Bruno (1954-2012) aveva infatti coniugato cinefilia e femminismo dirigendo alcuni cortometraggi in formato ridotto, tra cui È solo a noi che sta la decisione (1976), invisibile per più di quarant’anni e ora digitalizzato dall’ANCI e che, in virtù di migliori condizioni di conservazione, sarà proiettato a Torino insieme al film di Iorio e Cuomo. Si tratta di un super8 militante e amatoriale che restituisce il dibattito sull’aborto allora in corso.

La stessa Bruno prende parola in prima persona per denunciare la violenza di chi si oppone alla libertà di scelta delle donne e la confisca del diritto di parola sul tema da parte dei partiti politici e del clero. Nel 1977, Isabella Bruno e Liliana Ginanneschi pubblicarono un annuncio sul periodico Effe per creare un gruppo cinematografico femminista: «le donne devono appropriarsi di ogni mezzo di espressione e di comunicazione, cinema compreso. L’unico modo per sapersi esprimere con la cinepresa è filmare. Il nostro gruppo vuol essere di autocoscienza cinematografica. Vogliamo tirar fuori da noi stesse, insieme, l’immaginazione, la fantasia, il nostro modo di vedere e sentire le cose, di comunicare con la cinepresa».

Nasce così a Roma il Collettivo Femminista Alice Guy che nel 1978-9 realizza Affettuosamente ciak, riflessione ironica sulla storica e culturalmente costruita diffidenza delle donne verso la tecnica. Dagli anni 80 Bruno lavora in RAI e poi a Mediaset realizzando documentari.

Non è facile ricostruire la storia di questi film in assenza dell’autrice. Di lei e del suo lavoro si trovano tracce recenti negli studi di Sara Filippelli (sul n.11 dei Quaderni del CSC e nel volume Filmare il femminismo co-curato con Lucia Cardone) e della stessa Licciardello (sul n. 39 di Zapruder). Raggiunta al telefono, quest’ultima ci ha detto: «quelli di Isabella Bruno non sono film ‘belli’ o di particolare valore estetico come potevano essere quelli di Roussopoulos o di Godard ma sono importanti perché portatori di una molteplicità di sguardi importante. In più testimoniano il rapporto che c’è stato anche in Italia tra cinema amatoriale, militante e politica delle donne. Purtroppo, non sempre chi ha realizzato i film li ha anche conservati, valorizzati o rivendicati. Sono stati così sommersi dal tempo ma è giusto tenerne conto altrimenti si rischia di credere che il cinema militante femminista in Italia non sia esistito».

Senza parlare, poi, del rapporto tra femminismo e televisione negli anni dopo la riforma Rai del 1975 con Massimo Fichera alla rete2 e Marina Tartara capo struttura che crearono spazi per opere come Processo per stupro (1979) o per i film documento della scrittrice, regista e drammaturga Maricla Boggio.

Di quest’ultima, Rai Teche ha appena restaurato in digitale e presenterà al TFF, nella sezione «Back to life», Marisa della Magliana (1975) e Sono arrivati quattro fratelli (1979). Il primo è solitamente ricordato come il «primo telefilm femminista» e, mescolando finzione e documentario, segue la vita quotidiana di una ragazza-madre in un quartiere popolare di Roma nel tentativo di rendere visibile al grande pubblico una situazione di isolamento e difficoltà. Il secondo prosegue il progetto di narrare le storie di donne senza marito attraverso la figura di Marina che porta avanti una famiglia non convenzionale con i suoi quattro bambini adottati. Maricla Boggio sarà a Torino per presentare i restauri e per un incontro con Andrea Sassano (direttore Rai Teche), Paola Sciommeri (direttrice Produzione TV) ed Enrico Salvatori (Rai Cultura).

Ma per tornare al presente e a un cinema femminista militante vivo e vegeto, nella sezione doc/internazionale, si vedrà Si pudiera desear algo di Dora Garcia che intreccia le immagini delle manifestazioni femministe di Città del Messico degli ultimi cinque anni con sequenze in cui si vede all’opera l’artista trans non binary La Bruja de Texcoco, incarnazione di un femminismo capace di ripensarsi e trasformarsi valicando limiti e confini.