I suoni e i rumori che ci circondano sono qualcosa di più di una colonna sonora delle nostre esistenze. Paesaggi acusticamente connotati, sono anch’essi soggetti alle leggi della storia e del mutamento: il festante, mattutino tintinnio delle bottiglie di latte fuori la porta, come lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli per le strade, sono oramai solo vaghi ricordi dei più anziani.
Il volume di Paolo Galloni – Nella selva silente. Suoni e silenzi nelle foreste medievali (secoli VI-XIII) (Centro Italiano di Studi dell’Alto Medioevo, pp. 286, euro 36) – tenta di mostrare, di far risuonare in noi, le sonorità del passato che si rifrangono in quella foresta dei simboli fatta di testi e di contesti, di percezioni e delle elaborazioni culturali che necessariamente ne conseguono, perché, se udire è un fenomeno fisiologico, ascoltare è un atto psicologico e culturale che ben si presta a un’analisi storiografica. Innanzitutto perché è un senso sociale (nessuna società potrebbe nascere senza un ascoltarsi reciproco), e poi perché l’udito coglie la dinamica temporale, a differenza dello sguardo, che tende a una percezione statica delle cose: i suoni si percepiscono sempre per cambiamento e nel corso del tempo.

AVVICINARSI alle esperienze percettive medievali, raccontarle e interpretarle – spiega Galloni – è possibile considerando che il nostro corpo è la nostra personale macchina del tempo, «il nostro principale strumento di conoscenza storica».
In cinque capitoli Galloni ci parla del suono limpido e cristallino delle acque; dei fruscii di foglie e fronde che impediscono la vista ma si aprono ad un mondo di frequenze sonore talvolta più esegetiche dei testi; dell’aspro fragore delle armi e della caccia, del cupo rombo del tuono, del fracasso della tempesta, del crepitio del fuoco ma anche del sommesso silenzio della preghiera, magari recitata «su uno scoglio circondato da flutti, nel mare, tra le onde», come racconta la Vita dell’irlandese san Ciaran di Saighir.
Ieri come oggi, è impensabile comprendere quanto i suoni e i rumori abbiano da dirci, a saperli ascoltare. Pagina dopo pagina, Galloni ci mostra uomini e donne che frequentano spazi incolti per motivi ludici, alimentari e religiosi, per entrare in una comunione con un divino di cui la dimensione sensibile, corporea e ambientale – soprattutto quella acustica – era un’indispensabile premessa, il fondamentale principio.

Corollario di quest’ascolto vibrante è il rendersi conto di quanto gli abitanti degli spazi medievali siano vicini a quelli studiati dagli antropologi, dove l’idea di persona è ancora «relazionale», capace di porsi in dialogo con il creato con modalità compatibili con quelle attive nelle società tradizionali, ma anche di quanto la ricostruzione dei quei paesaggi possano ancora svelarci nonostante quelle sonorità siano scomparse da secoli. Contrariamente a quanto scriveva Isidoro di Siviglia nel De Musica: «se l’uomo non trattiene i suoni nella sua memoria, essi spariscono, perché non possono essere scritti». Invece sono proprio gli scritti analizzati da Galloni che riportano in vita antichi suoni e inediti significati.

NELLA SELVA SILENTE tutti i suoni rivelano cose, dal canto degli uccelli, espressione sonora di un’armonia del cosmo tutta tesa a costituire una polifonia misurata, al vento, in tutte le sue forme e le sue fasi: dalla brezza leggera, che in forma di Spirito Santo feconda la Vergine, alla furiosa tempesta che abbatte i vascelli in navigazione.
Alla quies eremitica dei santi silvani si oppongono gli strepitus della guerra e della caccia, le toniche più diuturne del Medioevo. Tumulti che forse venivano già indicati nell’arte figurativa da segnali per noi oggi di difficile comprensione, come il tratto irregolare o gli sconfinamenti oltre i margini, tipiche di alcune scene di battaglia, che volevano segnalare il rumore attraverso il disturbo dello spazio visivo, oppure evocare le onde sonore tratteggiando un andamento ondulato del suolo.
Così anche per i suoni di caccia, acusticamente speculare alla guerra. Le toniche violente, strazianti, eccitate delle sue varie fasi risuonano nelle immagini che abbelliscono i manoscritti e anche nei testi che ne decantano i vari momenti, in una scrittura sinestetica che raccontava tanto di più di quanto oggi riusciamo a recepire. A meno che non siamo disposti – ed è l’invito di Galloni – a concettualizzare le molteplici risonanze tra suoni, racconti e significati, «immaginando come fosse viva e operativa nelle coscienze e nell’immaginario dei cavalieri e dei loro contemporanei».
Un volume che, si spera, farà rumore.