A metà del capitolo che apre Fuoco all’anima (Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 169, € 13,00), raccontando a Leonardo Sciascia del giorno in cui si recò in visita al Convento dei Cappuccini, a Palermo, in compagnia di Italo Calvino, Domenico Porzio riferisce di averne ricavato un’impressione di familiarità con la morte. La discesa nella cripta dovette poi suggerire a Calvino la celebre descrizione di Eusapia, una delle Città invisibili, nel terzo pannello dedicato a «Le città e i morti»: «(…) perché il salto dalla vita alla morte sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito una copia identica della loro città sottoterra. I cadaveri, seccati in modo che ne resti lo scheletro rivestito di pelle gialla, vengono portati là sotto a continuare le occupazioni di prima». Sciascia risponde all’amico che «una cripta del genere non esiste soltanto a Palermo; nelle chiese siciliane è comune». Non è una mera precisazione: è un riferimento alla maggiore estensione di quella percezione: «In Sicilia si aveva questa forte familiarità con la morte».
È anche quanto si intravede tra le risposte, spesso brevissime, che lo scrittore dà al critico nel corso della serie di interviste raccolte in questo volumetto (il cui sottotitolo è Conversazioni con Domenico Porzio): una familiarità con la morte. Porzio – critico e amico di Sciascia, già curatore dei due volumi di Borges nei «Meridiani» – si era accordato con Mondadori per un libro di «dialoghi» con l’autore di Racalmuto: all’epoca, verso la fine degli anni ottanta, già malato e bisognoso di cure che spesso lo costringevano a soggiorni milanesi, dove Porzio viveva. Tra Milano e Palermo, il critico accumulò una pila di cassette magnetiche fitte di registrazioni. L’editore avrebbe voluto pubblicare il titolo all’inizio del 1989, ma quando Sciascia morì alla fine di quello stesso anno (Porzio gli sopravvisse soltanto nove mesi) il libro non c’era. Fu solo nel 1992 che Michele Porzio, figlio di Domenico, guidato da Marco Vigevani, curò la prima versione di Fuoco all’anima. A quasi trent’anni di distanza (tanti ce ne sono voluti perché gli eredi di Sciascia acconsentissero a una nuova edizione di questo testo troppo legato all’ultimo, doloroso periodo di vita dello scrittore) Adelphi ripubblica il volume con una bella nota finale del curatore, che dà ragione anche dell’evoluzione filologica di cui si è tenuto conto per questa nuova edizione.
Il libro reca soltanto una vaghissima traccia delle sezioni tematiche pianificate inizialmente da Porzio. La conversazione assume un andamento eclettico, e già dopo poche battute si orecchia un ritmo piano che sembra ricreare l’illusione di un incontro de visu, nel quale alla cadenza dolceamara di Sciascia bastano poche parole e qualche citazione per invadere lo spazio uditivo trasfigurato nella pagina.
L’amore per i libri, naturalmente, è ciò che tiene insieme il discorso, a cominciare proprio da Borges, amatissimo da Sciascia, che lo incontrò all’inizio degli anni ottanta grazie allo stesso Porzio. E poi i due riferimenti che Sciascia sentiva più vicini, quelli su cui ritorna più spesso: Savinio e Stendhal. Del primo torna ad affermare a più riprese la somma lucidità, quella «dello scrittore più intelligente», nel paese, l’Italia, che da sempre «avversa l’intelligenza»; del secondo, favorito dalla grazia con la quale Porzio conduce i dialoghi, ricorda la profondità nel racconto del «cuore dell’uomo», per poi evocare i «tre gradi dello stendhalismo», classificazione che Sciascia attribuisce ad altri: «prima si crede che il libro più grande sia Il rosso e il nero, poi ci si convince che è la Certosa, infine si capisce che il grado supremo è Henry Brulard». Porzio chiede allora a che grado sia giunto lui. La risposta è ovvia: «Sono arrivato a Henry Brulard».
Tra un commento letterario e l’altro (i passaggi sui grandi viaggiatori del Settecento sollecitati dal critico – lo scozzese Patrick Brydone su tutti – non sembrano ispirare Sciascia) affiorano dal testo frammenti dell’infanzia dello scrittore, e poi dettagli e ricordi del tempo della guerra. E avanzando verso le ultime pagine, quando Porzio premette che uno degli incontri si terrà nell’ospedale dove l’amico è ricoverato, quelle schegge autobiografiche disseminate nel libro, quelle scene della Sicilia antica, sembrano assumere un nuovo senso, e si accordano in una nuova composizione con la voce dello Sciascia finale e laconico.
Ribaltando l’assunto che questo sia un libro incompiuto, «l’ombra di un libro», come aveva scritto un recensore citato nella nota conclusiva, oggi si può leggere Fuoco all’anima piuttosto come «un libro di ombra», inaugurato non a caso dall’immagine della cripta di Palermo, e venuto fuori dall’ascolto sensibile di una voce: quella di un grande scrittore che si allontana. E proprio verso le ultime pagine, forse, si congeda: «Ormai non si parla più».