È di qualche settimana fa l’uscita pubblica di Bono Vox in cui criticava aspramente la sua band, ammettendo – quasi con candore – di non amare né le canzoni o gli album – a parte rare eccezioni – né la sua stessa voce, arrivando a dire di sentirsi in imbarazzo nel riascoltare i loro lavori. Dichiarazioni che hanno suscitato un vespaio e alimentato polemiche, dure, tanto tra i critici quanto tra il pubblico e ci si è chiesti del perché di questa intemerata, se non fosse quantomeno una mancanza di rispetto verso i milioni di fan che gli U2 hanno sparsi per il mondo; ci si è anche interrogati sui motivi che, stando così le cose, lo abbiano trattenuto dal mollare tutto e al contrario abbia continuato – e continui – a fare concerti, a cantare proprio molte di quelle canzoni che dice di non amare e, qua e là, ad incidere dischi con The Edge e soci. E qui la risposta appare ovvia, addirittura scontata: pecunia non olet!
Ma quello di Bono Vox non è certo l’unico esempio, anche se probabilmente il più eclatante, o quantomeno il più recente, di artisti e band che hanno «disconosciuto» qualche loro lavoro del passato. Qui vogliamo provare a ricordarne alcuni tra i più noti. Partendo da un altro gruppo con una fan base planetaria di milioni di appassionati, da più di cinquant’anni ormai, i Pink Floyd.

IDIOSINCRASIE
È risaputa la idiosincrasia che i quattro svilupparono per la suite di Atom Heart Mother, specie da parte di David Gilmour che non ha certo usato parole al miele per definire l’album che, uscito nel 1970, consacrò la band di Cambridge al mondo del nascente «rock» (il termine fu coniato »ufficialmente» solo un anno più tardi). La suite che occupava il lato A dell’album, era un lungo profluvio di pop psichedelico, neoavanguardia e contemporanea, con orchestrazioni e cori affidati alla penna del compositore scozzese Ron Geesin. E sembra sia stato proprio il lavoro di Geesin che portò Gilmour, interrogato al riguardo da Rolling Stone nel 2001, a dire: «Quel disco nasceva con delle buone intenzioni ma il risultato fu una schifezza totale». Tesi confermata anche dall’ex compagno Roger Waters: «Non tornerei a suonare quella schifezza di Atom Heart Mother neanche per un milione di sterline». Insomma, un fluido maleodorante, non esattamente «rosa»!
Ancora una band che vanta milioni di fan in tutto il mondo, i Queen. Tra i brani di maggior successo dell’allora quartetto inglese c’è Don’t Stop Me Now, tratto dal loro settimo album, Jazz, uscito nel 1978. Scritto da Freddie Mercury, rappresenta molto probabilmente la quintessenza dell’edonismo e della vita sregolata che al tempo stava fagocitando l’artista poi scomparso per le conseguenze dell’Aids nel 1991, e proprio queste caratteristiche non hanno mai convinto il chitarrista della band inglese Brian May, che preoccupato dagli eccessi del sodale, non riuscì mai ad amare questa canzone. Chi invece smise di amare uno dei suoi pezzi maggiormente iconici, se non il più iconico in senso assoluto, fu Kurt Cobain nei confronti di Smells Like Teen Spirit. Quello che è stato un vero inno generazionale e che ha smosso, in tutti i sensi, i giovani di mezzo mondo e lanciato definitivamente il grunge nel firmamento musicale, venne a noia allo stesso autore, per nulla contento del clamore mediatico generato dalla sua creazione, tanto da cancellarlo spesso dalla scaletta dei concerti: «Riesco a malapena, specie nelle brutte serate, a superare Teen Spirit, preferirei gettare la chitarra e andarmene». Ma ad attirare gli strali di Cobain non è solo il brano in sé ma l’intero album Nevermind, visto che nel documentario del 1993 Come as You Are: The Story of Nirvana, affermò di sentirsi imbarazzato nel riascoltare il disco: «Sembra più un album dei Mötley Crüe che un disco punk». Capiamo il punto di vista di un artista ma forse ha esagerato.
A proposito di album ripudiati, ce n’è una folta schiera, anche di inaspettati, visto che alcuni di questi sono considerati, ancora oggi, delle pietre miliari. Come Let it Be, il canto del cigno dei Beatles. Uscito nel 1970, per questo disco i Fab Four scelsero di affidarsi al produttore Phil Spector, scelta non fortunata che acuì i problemi già evidenti tra i quattro di Liverpool, problemi che portarono alla fine di quell’esperienza unica e irripetibile. Al momento della pubblicazione Let it Be ricevette non poche critiche da parte della stampa specializzata, ma a decretarne il vero «fallimento» fu, poco tempo dopo lo scioglimento della band, lo stesso John Lennon, il quale non ebbe remore nel confermare che quegli screzi inclinarono definitivamente i rapporti: «Non posso parlare per George (Harrison, ndr) ma per quel che mi riguarda ero decisamente stanco di essere il side-man di Paul (McCartney, ndr)». Musicalmente fu il lavoro orchestrale, aggiunto da Spector, a irritare il quartetto tanto che, nel 2003, McCartney supervisionò una rimasterizzazione dell’intero lavoro, pubblicato con il titolo di Let it Be… Naked, a cui vennero sottratte proprio le parti orchestrali.
Anche i rivali dei Fab Four, i Rolling Stones, hanno avuto il loro momento di sconforto riguardo a un album: Their Satanic Majesties Request, anno 1967. A palesare il parere non certo positivo fu lo stesso Mick Jagger, frontman della band inglese: «C’è un sacco di robaccia lì dentro! Troppo tempo a nostra disposizione, troppa droga in giro e nessun produttore che ci dicesse: ’Ok, basta così, grazie’». Altre due band inglesi rivali – ma stavolta rivali per davvero -, Oasis e Blur. Entrambi i gruppi hanno avuto qualcosa (molto) da ridire su alcuni loro lavori; i primi, nelle parole del leader e chitarrista Noel Gallagher, esprimono tutto il loro disappunto verso il loro terzo disco, pubblicato nel 1997, Be Here Now: «È il risultato sonoro di un gruppo di ragazzi sotto l’effetto della cocaina a cui non frega nulla di niente. Canzoni troppo lunghe e testi che non significano nulla…». Damon Albarn, leader dei londinesi Blur, se la prende addirittura con due album della band, Leisure del 1991 e The Great Escape del 1995: «Nella vita ho fatto centinaia di errori, tra questi ci sono due dischi, Leisure (l’esordio, ndr), che è veramente brutto, e quel pasticcio di The Great Escape».

SABOTAGGI MANCATI
Al netto delle beghe legali per un presunto plagio, a non amare particolarmente Stairway to Heaven dei Led Zeppelin è proprio uno dei membri della mitica band hard rock britannica, il cantante Robert Plant, che arrivò addirittura a pagare una radio di Portland, in Oregon, affinché non trasmettesse il brano: «Se fossi costretto a cantare quella maledetta canzone da matrimonio a ogni show mi verrebbe di sicuro l’orticaria». Niente male per quello che è considerato il più bel pezzo rock di tutti i tempi. Altra hit planetaria accusata di plagio e non gradita agli autori è Creep, il singolo del 1993, tratto dall’esordio Pablo Honey, che ha aperto le porte del successo mondiale ai Radiohead. Il brano, scritto dal leader Thom Yorke, non era particolarmente apprezzato dalla band di Oxford, ma i manager dell’etichetta vollero che fosse registrato e inserito all’interno dell’album. Jonny Greenwood, uno dei due chitarristi, cercò di sabotare la traccia inserendo un suono distorto prima del ritornello, ma ironia della sorte quel suono è diventato un tratto distintivo del pezzo. Per molti anni, nonostante le richieste dei fan, Creep non ha fatto parte della scaletta dei loro concerti, e Yorke ha ammesso che «a volte mi fa piacere suonarla, ma a volte vorrei fermare tutto, tipo: ’no, non sta succedendo davvero!’». Restando in tema brit pop, e tornando a un gruppo già citato, gli Oasis, c’è un’altra canzone che non gode della «stima» di almeno uno degli (ex) componenti della formazione mancuniana, Liam Gallagher: Wonderwall. Il vocalist al riguardo ha le idee chiare: «Odio quella cazzo di canzone. Ogni volta che la devo cantare vorrei vomitare. Quando vado in America e mi sento dire da qualcuno: ’Ah, tu sei Mr. Wonderwal!’, vorrei prenderlo a pugni».
Gli esempi sarebbero ancora moltissimi ma chiudiamo con Shiny Happy People dei Rem, il pezzo tratto dal loro album di maggior successo, Out of Time, del 1991. La band era nota per il suono e per le liriche non molto «allegri» e così la label chiese espressamente un brano spensierato da pubblicare come singolo. Scrissero quindi Shiny Happy People, certi che sarebbe stata rifiutata, e invece accadde il contrario, e la canzone divenne una vera hit. Michael Stipe, leader della band, è conosciuto per essere una persona gentile e disponibile, e lo dimostra anche quando parla del brano in questione: «Non voglio dire nulla di cattivo nei confronti di una canzone che non mi piace particolarmente, perché magari per qualcuno può significare qualcosa di importante e non voglio togliergli questa cosa». Insomma, l’esatto contrario di Bono Vox.