Riproniamo una nostra inchiesta del 1999 sull’uranio a Rotondella.

Confessiamo che, avendo letto le cronache dei quotidiani locali, gli atti processuali e le denunce delle associazioni ambientaliste, eravamo partiti alla volta della Basilicata, per un’inchiesta sui rischi del nucleare civile italiano, un po’ prevenuti. Invece l’impianto della Trisaia, sulla costa ionica all’estremo sud della provincia di Matera, appare alla vista come un centro di ricerca ben tenuto e al passo coi tempi. Il neodirettore Donato Viggiani, insediato da appena una settimana, ci tiene a marcare una linea di cesura con un passato fatto di politiche sbagliate (a partire dal piano Donat Cattin per il nucleare), errori di gestione e pericolosi incidenti che hanno scatenato le ire degli abitanti della zona. Anche Legambiente, l’unica organizzazione ammessa come parte civile nel processo sugli incidenti nucleari conclusosi appena un anno fa, appare soddisfatta del “nuovo corso” avviato dal centro, fatto di ricerche sulle fonti di energia rinnovabili, sulle agrobiotecnologie, l’energia solare, e via dicendo. Ma la pesante eredità del passato continua a pesare sull’impianto della Trisaia, di proprietà dell’Enea (l’Ente statale per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente). Un’eredità fatta di barre di uranio importate direttamente dagli Usa, di 2300 metri cubi di rifiuti liquidi, frutto di una serie di prove relative al ciclo del combustibile nucleare, e di tre metri cubi di uranio e torio, prodotto di un altro programma presto abbandonato. Senza considerare i 14 container di rifiuti della medicina nucleare che, secondo Legambiente, sarebbero illegalmente depositati nell’impianto. Alla fine degli anni ’70, inoltre, sono state scavate quattro fosse in cui sono stati sepolti rifiuti solidi radioattivi ad alta attività. Le scorie sono state poi cementificate e le fosse ricoperte con uno strato di bitume. L’impianto che ha attirato l’attenzione degli ambientalisti, della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti tossici e della magistratura, e di cui parla anche il dossier sull’ “eredità radioattiva” presentato ieri a Roma, è un’enorme struttura che si estende nel verde per 110 ettari di terreno, nel comune di Rotondella, in quell’estremo lembo della provincia di Matera ai confini con la Calabria, a due passi da Policoro e a quattro chilometri dal mare. Per arrivare fin qui, le tre strade che tagliano in due la Basilicata, l’autostrada Basentana e le superstrade dell’Agri e la Sinnica, fiancheggiano quelle terre e quei paesi, appollaiati sulle cime circostanti, ancora incredibilmente simili a come li aveva descritti più di cinquant’anni fa Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli. Un immigrato forzato in una regione, la Lucania, che da sempre vede emigrare la sua gente alla ricerca di lavoro (“in effetti, il problema maggiore di questa regione è il progressivo spopolamento delle zone interne”, ci dice Gianfranco De Feo, presidente regionale di Legambiente). E’ in questo contesto che, alla fine degli anni ’50, nell’ambito di un accordo di collaborazione tra l’allora Cnen, precursore dell’Enea, e l’Usaec (United states atomic energy commission), fu avviato il programma Ciclo uranio-torio, mirato alla dimostrazione della fattibilità tecnico-economica di questo ciclo nei confronti di quello uranio-plutonio, sperimentato invece nell’impianto di Saluggia, in provincia di Vercelli. Nel ’70 fu ultimata la realizzazione di un impianto pilota per il trattamento del combustibile irraggiato nel reattore americano di Elk-river. Nel periodo ’75-’78, annullato il programma uranio-torio, furono effettuate alcune “prove nucleari”, con il ritrattamento di 20 degli 84 elementi di combustibile acquistati dagli americani, immagazzinati nella piscina dell’impianto. I guai nacquero in seguito ad alcuni incidenti. Il 30 marzo del ’93 si ruppe una tubatura di scarico a mare, contaminando la spiaggia. Il 14 aprile del ’94, poi, fu la volta di un serbatoio di stoccaggio dei rifiuti radioattivi liquidi. Sulle due vicende, anche in seguito alle denunce degli ambientalisti, cominciò a indagare la magistratura, giungendo all’incriminazione di quattro tra dirigenti ed ex dirigenti del centro. Il processo, conclusosi un anno fa, ha portato al riconoscimento della responsabilità di due dirigenti per la mancata denuncia alle autorità degli incidenti (la prefettura di Matera ne era venuta a conoscenza solo in seguito alla comunicazione dell’autorità giudiziaria e si era vista respingere una richiesta di sopralluogo), ma senza alcuna condanna, perché da un mese il reato contestato era caduto in prescrizione. Ci furono inoltre altre due condanne, a 40 giorni e a due mesi di carcere, per la mancata realizzazione di un sistema di solidificazione dei rifiuti liquidi ad alta attività, che li avrebbe resi più sicuri, più volte annunciato e mai realizzato. Oggi il centro si avvale di 250 dipendenti, di cui il dieci per cento impiegati nel nucleare. “E a breve assumeremo altri 60 ricercatori”, annuncia il neodirettore, con contratti a termine triennali, per progetti finanziati in gran parte dal Ministero. “Ma non vogliamo creare precariato intellettuale”, ci tiene a precisare. “Anzi, stiamo monitorando la domanda di lavoro, soprattutto nel meridione, per cercare di coinvolgere i ricercatori in progetti che possano poi inserirli nel mondo del lavoro”, continua. Della pesante eredità nucleare si preferisce non parlare, nonostante quei “quattro sarcofaghi”, come li ha definiti Legambiente, stiano lì a testimoniare la definitività della scelta di far rimanere in Basilicata quei rifiuti radioattivi. Anche se da anni ormai si parla della creazione di un “sito unico nazionale”, una megapattumiera che dovrebbe raccogliere tutti i residui nucleari del Belpaese. Alcune voci parlano delle cave di salgemma di Scanzano Jonico, che avrebbero tutte le carte in regola, geologicamente parlando, per custodirli. Oppure della Murgia pugliese, in pieno parco naturale. Ma il presidente di Legambiente avverte: “Non tollereremo la creazione di altri siti di stoccaggio dei rifiuti in queste zone”. Quando lasciamo la Trisaia è ormai sera, di un freddo aspro come le terre che la circondano, “terre di briganti”.