Come in un fantastico videogame sparatutto, 48 ore di fuoco incrociato hanno mandato a fondo il progetto Superlega, il torneo per squadre ricche e blasonate immaginato dai potenti del calcio, una mafia di presidenti e manager che ha addirittura evocato «un patto di sangue». Tifosi e giocatori d’oggi e di ieri hanno strepitato, urlato e maledetto col seguito delle istituzioni sportive, come l’indifendibile Uefa, e i governi di grandi nazioni europee, in primis la Gran Bretagna della Brexit. «È un gioco dal profondo valore sociale che riguarda l’identità locale e le nostre tradizioni» hanno scritto sui cartelli i supporters, «è un business con problemi economici rilevanti che deve misurarsi con le sfide del futuro» la debole controrisposta. E le 12 società coinvolte hanno dovuto ritirarsi con la coda fra le gambe e con differenti stili. «Voglio scusarmi con tutti i tifosi e i tifosi del Liverpool Football Club per il disagio che ho causato nelle ultime 48 ore» ha detto John W. Henry, il presidente del Liverpool «Se c’è una cosa che questa orribile pandemia ha mostrato chiaramente, è quanto siano cruciali i tifosi per il nostro sport e per ogni sport.

VIENE MOSTRATO in ogni stadio vuoto. È stato un anno incredibilmente difficile per tutti noi. Vi ho deluso e mi dispiace». Probabilmente il pasticciato comunicato della Superlega ha risentito della necessaria urgenza per arrivare al grande pubblico prima dell’annunciata riforma della Champions League (sono loro il bersaglio, non i campionati nazionali o le coppette dalle fogge strane) facendo passare «nel discorso comune da bar o da pub» il concetto del torneo tra gli ottimati, per necessità economica, aziendale e commerciale. Un altro passo decisivo verso la finanziarizzazione del football con banche d’affari e fondi d’investimento nella parte dei pescecani penalizzando i vivai (il modernissimo Napoli del presidente De Laurentiis non ce l’ha proprio) e il calcio di base o semiprofessionistico. Niente squadra espressione della comunità locale, concetto obsoleto quando le partite di calcio si vedevano solo allo stadio. Oggi comanda il prodotto televisivo mondiale tanto che non è difficile pensare a quello che è successo nelle franchigie della Nba, col passaggio di squadre da un territorio all’altro, ad esempio i Kings di Rochester passati poi per Cincinnati e poi approdati a Sacramento in California o i mitici Los Angeles Lakers che provenivano dalle zone lacustri di Minneapolis (e prima ancora Detroit).

NELLA CULTURA SPORTIVA europea, codificata nei college universitari, invece, c’è la sana rivalità con l’umorismo e la passione familiare, dietro la chance della squadra più debole di combattere (e vincere) contro i più forti, da Davide e Golia agli Orazi e Curiazi, sicuri antenati di Rinus Michels e Valerij Lobanovsky. L’imperativo è aumentare la popolarità e principalmente il volume d’affari, il famigerato global brand, quindi una riforma sovranazionale per incrementare il business dove il risultato del campo non conta quanto la capacità di negoziare contratti sostanziosi sui diritti tv, sponsorizzazioni e merchandising. E se le giovani generazioni sbadigliano davanti al piccolo o grande schermo, trovando più divertente i videogiochi Fortnite o Call of Duty, bisognerà ridurre i tempi di gioco (sostiene Perez del Real Madrid) e forse anche il numero dei giocatori di una squadra e pure questo difficile fuorigioco. È lo zeitgeist, bellezza, lo spirito dei tempi portato dal vento. Per qualcuno è un rumoroso coro di tifosi. Per la sporca dozzina è un sonoro pernacchio.