Con il ’68 inizia la fine del mondo. Già, ma poiché come spiega Ernesto De Martino, a finire non è mai il mondo, ma un mondo in particolare, quello che inizia a finire con il ’68 è appunto un mondo, quel mondo nato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, il mondo borghese.

A finire è dunque una particolare configurazione dell’età moderna, con la quale finisce l’immagine borghese del mondo che si era andata lentamente affermando nei secoli, così come indagato da Franz Borkenau in un suo straordinario saggio degli anni Trenta. In questo senso il ’68 è una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, e quindi contro quella Università, quella scuola e quel sistema educativo, contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura e contro l’organizzazione economica che quel mondo si era dato.

Il ’68 è una rivoluzione totale che vuole farla finita una volta per tutte con quel mondo, e ogni sua espressione e manifestazione è solo l’inizio di un rivolgimento molto più complesso e articolato. È dunque una rivoluzione antiautoritaria, perché vuole mettere in discussione i ruoli, e linguistica, perché ogni mondo ha una sua propria lingua che si può difendere, combattere o reinventare.

È una rivoluzione libertaria, senz’altro, perché vuole rovesciare la morale borghese, la famiglia e il sesso, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana. È un po’ di possibile, un evento che crea una nuova esistenza e produce una nuova soggettività, come avrebbero detto Gilles Deleuze e Felix Guattari.

Ma è anche, e decisamente, una rivoluzione anticapitalista, che di quel sistema economico-sociale si vuol disfare per aprire le porte a rapporti sociali, economici e lavorativi più liberi e giusti. Non c’è ’68 senza ’69, non bisogna dimenticarlo, ovvero non ci sono studenti dentro e contro l’università, senza operai in lotta dentro e contro la fabbrica.

In questo senso il ’68 fa parte di una lunga lotta che annovera tra le sue date il 1378 del tumulto Ciompi a Firenze, il 1525 della battaglia di Frankenhausen, il 1789 della presa della Bastiglia, il 1793 dei giacobini neri ad Haiti, il 1848 dei moti radicali in Europa e il 1871 della Comune di Parigi. Senza dimenticare il 1917 dell’assalto al Palazzo d’inverno e dei soviet.

La data segna anche l’inizio della fine dell’organizzazione culturale borghese, e quindi, insieme all’Università moderna, inizia la fine dell’intellettuale, quello nato con l’affaire Dreyfus, e anche l’artista e l’opera d’arte iniziano a essere radicalmente ridefiniti (per ironia della sorte, Pino Pascali, uno degli artisti italiani che più ha contribuito a ridefinire l’opera e i suoi confini, muore proprio nel 1968).

È dunque, l’abbiamo detto, l’inizio di una fine, ma è anche l’inizio di una transizione, quella da un mondo a un altro. Sì, perché, è sempre De Martino a spiegarlo, con la fine di un mondo, ne inizia uno nuovo, così come la fine della civiltà greco-romana segna l’inizio di un un’epoca imprevista, straordinariamente ricca di intelligenza poetica e scientifica e di innovazioni tecnologiche, politiche e sociali, che durerà 1000 anni.

Con il 1968 allora, e lo si vede bene nel lungo ’68 italiano che dura fino al ’78, inizia la transizione dall’immagine borghese all’immagine moltitudinaria del mondo, ovvero inizia la transizione dal moderno al postmoderno. Il ’68 è, in questo senso, l’ultima delle rivoluzioni moderne (anche solo delle forme di vita e senza presa del potere, ma sempre di rivoluzione si tratta), come il ’77 sarà la prima delle insurrezioni postmoderne (e la differenza tra rivoluzione e insurrezione non è una questione puramente linguistica, essendo il concetto di rivoluzione, scientificamente e politicamente, tutto dentro l’immagine borghese del mondo).

Il ’68 allora è solo un inizio, come recita il titolo di questa mostra che riprende lo slogan più famoso del maggio parigino, perché non è che l’inizio di un mondo nuovo, il nostro mondo, quello nel quale ci troviamo immersi oggi.

Ripensare il ’68 esclude quindi toni nostalgici e apocalittici, non c’è nulla di irrimediabile e nulla da rimpiangere tra la macerie di quel mondo che allora iniziò a finire.

C’è invece, davanti a noi, un mondo ancora nuovo che chiede di essere inventato e costruito, giorno per giorno, con intelligenza e amore. Sotto ogni selciato, c’è sempre una spiaggia.

* dal catalogo Mondadori Electa della mostra

ESTRATTI DI INTERVENTI DAL GIORNALE CATALOGO DELLA MOSTRA

 

ROSSANA ROSSANDA

Penso che sia meglio non confondere arte e politica, sono due settori totalmente diversi e implicano diversi criteri di misura. Perciò, a un’opera che si dichiara artistica va chiesto soltanto, secondo me, se lo è davvero e secondo quali criteri.
(…) L’esperienza del «manifesto»: il giornale si proponeva di opporre la nostra concezione al problema di una politica comunista. Non eravamo d’accordo con le posizioni del Partito comunista italiano, né in tema di scelte internazionali né interne, e nemmeno sul regime interno del partito. Il movimento del ‘68 pareva opporsi soprattutto a quest’ultimo, in tema di libertà e di rapporti con la sfera della persona.

(…) Non credo che si possa imputare al Pci una forma di «repressione violenta». La repressione si è espressa soprattutto nel rifiuto di affrontare le questioni che il ‘68 stava ponendo. La repressione è venuta realmente da parte dell’«avversario di classe», sia sociale che politico. Piazza Fontana è stato un tentativo fascista, per il quale in forma contorta si è avuta anche una condanna. Ma non è l’unico attentato in senso proprio che è stato giocato in chiave anti-68. Da parte del Pci, c’è stato un appoggio diretto o indiretto alla critica delle tesi studentesche e della gioventù operaia che ne era coinvolta; non è detto che queste critiche siano state meno serie. Il movimento degli studenti è stato isolato, mentre in genere le tematiche del ‘68 sono sopravvissute in Italia in vari settori, soprattutto nella critica alle cosiddette «istituzioni totali», per tutto il decennio successivo (manicomi, ospedali, esercito, ecc.). Nel frattempo l’afasia del Partito Comunista contribuiva alla sua stessa decadenza, non solo in Italia ma anche in altri paesi.

(…) Non penso che la politica, come noi l’abbiamo sperimentata e così come l’ha fatto l’inizio del secolo scorso, fosse «utopica». E non auguro a nessuna politica di esserlo, se utopico significa non avere collocazione in nessun luogo. Inoltre, non vedo molto che cosa sia rimasto oggi di una così profonda modificazione dei mezzi e dei linguaggi. Mi piacerebbe, ma, non vedo chi e dove. Siamo ancora in piena crisi delle tematiche del ’900.

(da un’intervista di Mara Chiaretti)

LUCIANA CASTELLINA

Il ’68 non è stato un improvviso, spontaneo movimento di protesta come spesso erroneamente si dice. È stato l’approdo di una riflessione (e di un’esperienza) maturata nel corso dei meravigliosi anni ’60 che hanno segnato un mutamento storico dopo la fase del dopoguerra e della ripresa economica. È in questo periodo che si comincia a fare i conti con il capitalismo avanzato e le nuove contraddizioni che fa emergere, non più con l’arretratezza. Su questo punto si era aperta la prima vera polemica nel Pci di cui il gruppo del Manifesto, ancor prima di dar vita alla Rivista, era stato in vario modo protagonista. È su questa novità, che motiva l’insorgenza del movimento, che si realizza il nostro incontro con il ’68, sia pure scontando importanti differenze generazionali.

(…) La politica culturale del Pci ha certamente avuto momenti di deprecabile chiusura, dettati più dalla formazione del suo gruppo dirigente più anziano che dal settarismo. E tuttavia il Pci – si pensi a come era l’Unità – ha svolto uno straordinario ruolo nell’ammodernamento culturale di larghe masse popolari. Non è un caso, tanto per fare un esempio, che, sebbene divisi fra loro, sia i pittori neorealisti che quelli astrattisti, fossero tutti iscritti a quel partito. E poi: all’inizio degli anni ’60, proprio l’animatrice della Casa della Cultura di Milano – punta avanzata del più eterodosso dibattito cultuale dell’epoca – è stata chiamata da Togliatti a dirigere la Commissione culturale nazionale. Si trattava di Rossana Rossanda.

(…) Il cinema e le arti figurative sono parenti. Il discorso sull’una è analogo a quello sulle altre. Quanto al loro essere arte se rivoluzionarie o rivoluzionarie solo se arte, si tratta di un dibattito ben lungi dall’essere concluso. Ricordo che nel Pci ci fu un aspro conflitto sul tema. Non è un caso però che il quadro simbolo della nostra generazione sia stato Guernica di Picasso. E che Toti Scialoja, certo non un conformista, abbia inalberato polemicamente contro l’arte per l’arte, la protesta di Hoffmann: «Si viveva solo per l’arte e per essa si sttraversava la vita, un’epoca tragica e fatale ha afferrato l’uomo col suo pugno di ferro e il dolore gli strappa gli accenti che prima gli erano ignoti».

(da un’intervista di Mara Chiaretti)

MARIO TRONTI

Ricordo in particolare un corteo a via del Corso, durante il quale invece dello slogan usuale «potere studentesco», improvvisamente venne fuori lo slogan «potere operaio», allora pensai: ecco, c’è stato il salto.
(…)

Quello che veramente è rimasto del ’68 è piuttosto il lato negativo. Nel senso che il carattere del ’68 è stato soprattutto quello di una rivolta antiautoritaria, e allora fu giusto perché ce n’era bisogno, perché questo era un paese in cui il paternalismo era molto forte, quella dei figli contro i padri fu una rottura molto forte. Ma lì si è innescato un processo che nel tempo ha mostrato molte negatività, un processo dissolutivo e non costruttivo. Nel post-operaismo c’è questa polemica tra potere destituente e potere costituente, ecco in questo senso il ’68 è stato un potere destituente e non è riuscito a essere costituente, a creare nuove forme.

Per esempio, quello che oggi è il senso comune di massa, il più pericoloso, ovvero l’antipolitica, se andiamo a scavare bene lo ritroviamo in origine nel ’68, perché lì si cominciarono a destrutturare le forme politiche tradizionali.

Nel ’68 entrano in crisi i grandi partiti di massa, non a caso i protagonisti del ’68 negli anni seguenti faranno i gruppi, il gruppo era il rifiuto del partito, il partito era visto come un elemento da battere, distruggere, eliminare. Per me uno dei luoghi culturalmente più interessanti del ’68 è stato quello tedesco, quello di Berlino e di Rudi Dutschke che era il fautore dell’idea della «lunga marcia dentro le istituzioni», quello poteva essere un elemento neocostituente, ma in Italia non c’è stato, e questo è stato un grave limite.

Poi è nata la polemica anti-istituzionale, ma le istituzioni sono rimaste sempre quelle. Il ’68 insomma è stato destituente ma non costituente. Quello che mi preme sottolineare è la sua ambiguità. Il ’68 è stato ombre e luci, sicuramente più luci che ombre, grande luce nel suo momento, ombre dopo.

(da un’intervista di Nicolas Martino e Giovanna Ferrara)

FRANCO PIPERNO

Il ’68 è stata una critica spietata dell’università italiana che, proprio in quegli anni andava americanizzandosi, ovvero omologandosi all’azienda e perseguendo una formazione universitaria zeppa di idiotismi specializzati.

L’occupazione delle università, le pratiche di autoformazione, i seminari interdisciplinari, l’assemblea come ricomposizione dell’unità del sapere, tutto questo introduce nella vita dello studente un sentimento dello spazio-tempo riassumibile senza residui nello slogan: qui e ora. Il movimento del ’68, portando fino in fondo la critica del sapere articolato nelle innumerevoli discipline accademiche, mette allo scoperto la relazione di legittimazione, generalmente taciuta, che intercorre tra la frammentazione del sapere e la divisione sociale del lavoro, tra lavoro manuale e intellettuale. Qui va cercato l’inizio di quella fortunata alleanza tra studenti e operai, destinata a segnare l’epoca. Viviamo tutti nell’epoca alla quale il ‘68 ha dato inizio.

(…)Nel movimento del ’68 convergono tendenze etico-politiche diverse, talvolta opposte. Ma qui la differenza è una risorsa: la molteplicità permette di evitare il settarismo, rende la forma-movimento un soggetto radicalmente diverso dalla forma-partito. Da questo punto di vista, tutte le tendenze hanno fornito un catalogo degli errori. Il che non è poco, dal momento che alla verità ci si avvicina per tentativi ed errori. Lode dell’errore, dunque: alla fine impareremo a vincere. Bisogna ricordare che, comunque, le tendenze pur differenti avevano creato una lingua veicolare, il cui lessico di base era preso in prestito dai vari rami della tradizione marxista innestata in buona sostanza dal pensiero francofortese e dall’operaismo italiano.

Quest’ultimo sembra aver resistito meglio all’usura del tempo. Il neo-operaismo italiano pone infatti al centro l’operaio, ma non quello orgoglioso del suo lavoro, piuttosto quello che lo avverte come un furto del proprio tempo, una condizione da odiare e rifiutare, una disgrazia alla quale sottrarsi «qui e ora».

È difficile non vedere l’attualità sovversiva di questo rifiuto anche ai giorni nostri, quando il lavoro ripetitivo, manuale o intellettuale che sia, viene reso più efficace ed efficiente, consegnandolo alla macchina informatica.

(da un’intervista di Ilaria Bussoni)