«Ho avuto il privilegio – raccontava il fondatore dell’Atlantic Ahmet Ertegun – di conoscere e poi di diventare amico di Aretha. Quando ero a Detroit andavo a trovarla a casa sua e lei mi suonava i suoi dischi preferiti: Dinah Washington, Ella Fitzgerald e Billie Holiday. Lei riesce sempre a captare le frequenze giuste dalle cantanti che ammira. Non credo esista una persona con uno strumento come il suo e che conosca a menadito il linguaggio della black music. Lei riesce a combinare uno stile sofisticato con la profondità del blues che arriva dal Delta».

Eppure – messa sotto contratto dalla Columbia nei primi anni ’60 – quella sua incredibile espressività di cantante forgiata dai canti gospel non riuscì mai a emergere come avrebbe dovuto, e potuto, penalizzata da orchestrazioni che la costringevano in uno stile troppo sofisticato appariva qualche volta come intimorita. Anche quando si trattava di misurarsi con il repertorio della sua adorata Dinah Washington, gli archi e un’eccessiva teatralità tendevano a nascondere il suo vero talento. Eppure – il doppio Jazz to Soul (1964) e il live Yeah! (1965),rivelano come la voce della ventenne ragazza del Mississippi possa regalare ben altro.

Tutta l’espressività di Aretha esplode quando, finalmente libera dal contratto con la Columbia, si lega all’Atlantic, attenta in quel periodo all’autenticità del suono black, e incide ai celebri Muscle Shoals e a New York. Seduta al pianoforte, intorno a lei una rhythm section di musicisti bianchi dell’Alabama dalle radici blues e una front line di fiati guidata da King Curtis.

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Da quelle session di pura magia escono canzoni meravigliose confluite su I never Loved a Man the Way I love You (1967) che la spingono altissima nelle classifiche americane. Dal 1967 al 1971 Aretha esplora tutto l’immaginario del soul e dà il meglio di sé compreso un disco dal vivo –Aretha in Paris (’68) che testimonia il tour europeo e dove trova spazio un duetto con Ray Charles sulle note di una torrenziale Spirit in The Dark. Sempre nello stesso anno arriva Lady Soul con la classica Respect. La voce di Aretha è in quegli anni al massimo della forma e della capacità comunicativa, tra acuti naturali, l’uso del falsetto – di cui è maestra ancora oggi a 72 anni – un portamento vocale sontuoso che riesce a toccare ogni corda più recondita dei sentimenti. Gli album successivi segnano però una spinta involutiva, sempre insieme a Jerry Wexler e Arif Mardin a cui si aggiunge Quincy Jones incide You (1973) che contiene uno dei vertici della sua carriera, Angel, scritta dalla sorella Carolyn, sono dischi non più in sintonia con il mercato.

La Atlantic punta su Roberta Flack e Aretha prova allora a confrontarsi con l’imperante disco music senza grandi esiti: Sweet Passion (’77), Almighty Fire (’78), La Diva (’79) nonostante la collaborazione di produttori come Lamont Dozier, Curtis Mayfield e Van Mc Coy non le rendono giustizia. Decisamente più centrata la ‘rinascita’ a metà anni ottanta con due dischi, Who’s Zooming Who (’85) dove duetta con Annie Lennox nell’inno’ femminista’ Sisters Are Doin’it for Themselves e Aretha (’86) con una cover azzeccatissima della rollingstoniana Jumpin ‘Jack Flash. Gli ottanta segnano un ritorno al gospel, con il doppio One Lord, One Faith, One Baptism (’89) con lei cantano le sorelle, Mavis Staples e il reverendo Jackson. Toccante. Poi l’approccio discografico della cantante si fa distratto e svogliato, quasi condotta per mano dai manager e dallle label che le scelgono il repertorio da interpretare, vira sempre più su un pop innocuo e plastificato.

L’unico tentativo vero di confronto con le nuove generazioni è A Rose is Still A Rose (’98) – la title track è scritta da Lauryn Hill – dalle sonorità modernissime ma che non sempre riescono a dialogare con lo stile della queen of soul. Più decisa nonostante qualche inevitabile ammaccatura dovuta all’età, Aretha si trova certamente più a suo agio nel nuovo disco di cover, prodotto da Clive Davies e con l’aiuto di André 3000 degli Outkast, Baby Face, Harvey Mason Jr., Terry Hunter ed Eric Kupper. Da brividi At last in memoria di Etta James, ma a convincere è l’incontro con Adele e la sua Rollin into the deep – che sembra scritta proprio per Aretha – a dimostrare come ancora oggi l’influenza della Franklin sulle nuove generazioni sia notevole.