Scrivere dei libri degli altri è per Margaret Atwood una questione problematica. Un esercizio faticoso, ha confessato una quindicina di anni fa, come i «compiti a casa» che faceva da bambina. Richiede infatti al narratore di formarsi un’opinione, invece di cullarsi in quella keatsiana «capacità negativa» che rende così riposante la lettura di un’opera altrui. Lo costringe anche a misurare i propri gusti e valori. «Cosa intendiamo quando diciamo che un libro è “buono”? Quali elementi lo rendono per noi “cattivo”, e perché?». Recensire, sostiene Atwood, equivale per ogni scrittore a donare un po’ di sangue in nome della dedizione al comune mestiere in cui il reciproco sguardo è vitale. «I recensori sculacciano, distribuiscono schiaffi per quelli che ritengono risultati scarsi, oppure accarezzano, offrono dolcetti per risultati che reputano degni di ammirazione». Fortunatamente, aggiunge, lei può permettersi il lusso di occuparsi solo dei libri che le piacciono. Dunque di accarezzare.
Non si direbbe che la pensi troppo diversamente Lorrie Moore, un’altra narratrice che ha speso con grande generosità il suo talento facendo i «compiti a casa» da quando non era che una promettente allieva di Alison Lurie alla Cornell University: prima per «Epoch», poi per «The New York Times Book Review», infine per «The New York Review of Books», cui ancora oggi collabora. Nata a Glen Falls, esordiente a nemmeno trent’anni con il folgorante Tutto da sola (1985), autrice di altre tre raccolte di racconti e tre romanzi, insegnante di scrittura creativa alla University of Madison nel Wisconsin fino al 2013, adesso di inglese alla Vanderbilt di Nashville, solo tre anni fa Moore si è decisa a pubblicare una selezione del suo molto ampio, variegato lavoro di saggista. La propone ora in italiano La nave di Teseo, riducendone drasticamente i testi a metà (per l’esattezza 32 su 66), ma rispettandone quasi fedelmente il titolo, la frase Vedi quello che puoi fare («I Fari», traduzione di Chiara Spaziani, pp. 338, € 23,00) con cui Bob Silvers, storico redattore della «New York Review of Books», era solito accompagnare i libri che inviava alla scrittrice per sollecitarla a occuparsene. Non un invito, piuttosto una «formula magica», spiega Moore nell’introduzione, che le faceva credere sempre di avere scoperto una porta misteriosa, anche se quella porta in realtà ce l’aveva messa lui.
«Le recensioni negative firmate dagli altri scrittori sono ottime per le faccende di casa, devi solo tirare giù dagli scaffali della libreria tutti i libri di quell’autore e buttarli, facendo spazio per gli altri libri che se ne stanno impilati sul pavimento», rispondeva Moore nel 2010 a una domanda sull’effetto che le provocava la recensione di un altro narratore a una sua opera. Difficile pensare che qualcuno degli scrittori di cui leggiamo in Vedi quello che puoi fare abbia mai buttato fuori dalla finestra un libro di Moore. Si direbbe, malgrado non manchino in queste pagine perplessità e rilievi, che anche lei si occupi come Margaret Atwood soprattutto degli autori che le piacciono. A cominciare dalla stessa Atwood, presente nella silloge italiana solo con la recensione a La donna che rubava i mariti del 1993, relativa dunque al secondo dei cinque decenni percorsi dal volume, cui Moore attribuisce il merito di avere fissato la più elequente immagine di donna alla fine del ventesimo secolo: «una lavoratrice, al mattino presto, con indosso solo ciabatte e vestaglia, che insegue un camion della spazzatura brandendo il sacchetto di plastica». Alle scrittrici la raccolta originale dedica molto spazio: anche Alice Munro vi figura con più di un articolo, segno di un’attenzione rimasta viva nel tempo. «I libri scritti dalle donne portavano in dono un forte senso di amicizia, di consolazione. Si presentavano sul giardino di ingresso e salutavano», dichiara Moore raccontando di sé giovane lettrice in Sulla scrittura, il testo più personale e programmatico dell’intero volume. L’edizione italiana ne accoglie gli articoli su Joyce Carol Oates, Miranda July, Clarice Lispector, Anaïs Nin; ne espunge però, ed è un incomprensibile peccato, i due saggi fondamentali su Dawn Powell e Eudora Welty, peraltro note nella nostra lingua, privilegiando pezzi di argomento non letterario francamente meno incisivi e spesso più effimeri.
Costruita seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione dei singoli scritti, quindi ricalcando la parabola delle passioni di Moore, la raccolta affianca ai pur preponderanti articoli su narratori (tra cui i molto amati Philip Roth, John Updike, John Cheever) testi autobiografici, recensioni di film e serie televisive, commenti politici. La centralità della cultura e della vita nordamericana vi risplende in ogni caso assoluta. Rimangono allo stesso modo evidenti i temi e le opzioni espressive che innervano l’opera narrativa dell’autrice: la predilezione per la forma breve, l’interesse per le strutture e per il tempo che le strutture rappresentano, il rapporto tra verità e menzogna, il complesso equilibrio dell’amore, l’esistenza femminile. Tuttavia, malgrado piccoli gioielli come Titanic e 11 settembre 2001, le pagine migliori del volume, a maggior ragione per il lettore italiano che non avrebbe disdegnato l’ausilio di qualche nota esplicativa, si confermano quelle di argomento letterario. «Coloro che fanno forse una volta ogni tanto devono anche giudicare. Ritenevo perciò che un contributo al dialogo culturale – in capo ad autori dalla voce critica non torbida, non accademica, non ingarbugliata – fosse un impegno civico difficile, ma obbligatorio: il dovere del giurato», afferma del resto Moore nella premessa, allineando così le proprie ragioni con quelle di Margaret Atwood.
Riluce nella interpretazione di romanzi e racconti il sottile filo di seta che annoda le pagine del libro: il chiasmo tra opera e biografia, tra creazione romanzesca e realtà. Come scriveva in un brano del molto celebre Ballando in America (1996), la narrativa rappresenta infatti per Moore «la vita che non viviamo, la strana stanza che è stata aggiunta alla casa, l’altra luna che gira attorno alla terra». Questo chiede anche ai suoi scrittori in Vedi quello che puoi fare. È nelle recensioni letterarie che affiorano più nitide le specifiche qualità della sua narrativa: l’infallibile senso musicale della frase, il tono colloquiale malgrado la ferrea lucidità del disegno espressivo, l’umorismo esatto tuttavia mai feroce, il gusto per la metafora insieme rigorosa e acrobatica. Per questo l’imperdonabile lacuna del volume italiano sta nella sua traduzione, a tratti incespicante e sorda. Sono forse la stessa cosa «un quadro arancione» e il disegno di un arancio? Le stanze di una casa appaiono «adombrate» o non invece ombrose? Perché ciò che è estraneo deve diventare «alieno» e un girotondo trasformarsi in una «ronda»? Si tratta soltanto di briciole «raccolte a zonzo» (inteso per qua e là), né è possibile elencare i contorcimenti sintattici e le stecche lessicali, gli arbitrari pleonasmi, le spiegazioni dei giochi di parole abusivamente incuneate nel testo, la spregiudicata leggerezza con cui è maneggiata la grammatica. Un «punto di vista» si ha verso qualcosa? Una persona è «affine» con un’altra? Qualcuno può diventare «sordo» a un orecchio? Moore ringrazia nel libro i suoi molti «editor dall’occhio di lince». Il testo inglese legge aquila, ma felini o rapaci poco importa, ameremmo si fossero spinti fino a qui. Perfino senza vibrisse o spennacchiati.