«È solo una piccola bara, veramente. Circondata da carburante ad altissimo grado di combustibilità – una bomba su ruote, sotto tutti i punti di vista». Così James Hunt (che ha le sembianze angeliche dell’australiano Thor/ Chris Hemsworth) descrive la sua auto da corsa. E il fatto che lo faccia sorridendo, quasi con affetto, lo rende ancora più sexy.

«Ogni anno, venticinque persone iniziano il campionato mondiale di Formula Uno. Ogni anno ne muoiono due. Che razza di persona fa un lavoro del genere?” gli fa eco, meno poetico, Niki Lauda (Daniel Bruhl, spagnolo d’origine tedesca che si muove agilmente tra soap teutonica, «cinema d’arte» europeo, Tarantino, Julie Delpy e Jason Bourne).

Che la posta in gioco sia altissima, in Rush, è chiaro fin dall’inizio. Il pericolo è una componente fondamentale di quello che Hunt e Lauda, a bordo delle loro McLaren e Ferrari, fanno per vivere. Ambientato in gran parte durante il campionato del 1976, i film inizia infatti (e lì torna alla fine, dopo una serie di flash back), al circuito tedesco di Nurbringring, sede del clamoroso incidente che, il primo agosto di quell’anno, lasciò Lauda in fin di vita e poi sfigurato per sempre.

E, lavorando di ipersaturati colori primari (blu profondi, verdi e gialli sgargianti ma soprattutto il rosso, reso nella sua qualità più piena, Kodachrome) e con l’aiuto di mini telecamere piazzate ad arte dell’abitacolo di auto «sparate» a centinaia di chilometri all’ora, il direttore della fotografia di Danny Boyle e Lars Von Trier, Anthony Dod Mantle, contribuisce a trasmettere anche alla poltrone della sala quella sensazione tra estasi e rischio mortale che rende Rush così elettrico.
Ron Howard ritrova contemporaneamente la sua vibe cormaniana (Grand Theft Auto è del 1977, un anno dopo gli eventi di Rush) e il gusto per il dettaglio di precisi universi professionali che caratterizza alcuni dei suoi film migliori (i pompieri di Backdraft, la redazione tabloid di The Paper, gli astronauti di Apollo 13…) in quest’avventura ispirata a una delle grandi rivalità della storia sportiva.

Per rivisitare il duello tra l’artistocratico, affascinante, spericolato, edonista pilota inglese e il metodico, giudizioso, introverso, poco attraente rampollo di una famiglia di banchieri austriaci, Howard è ricorso alla penna di Peter Morgan, che per lui aveva già messo in scena un altro duello, quello tra il giornalista Robert Frost e Richard Nixon, in Frost/Nixon. Un’idea dello sport e della vita privata fondata su analisi, ordine, continuità e disciplina contro una visione di entrambi all’insegna del rischio, dell’istinto immediato e del caos. Un campione «freddo», poco telegenico, soprannominato the rat, il ratto, contro uno dal look apollineo, circondato da donne bellissime e, sull’asfalto, immune ai postumi delle peggiori sbornie. Prosa (Lauda) contro poesia (Hunt) –alla Gates vs. Jobs, Salieri vs. Mozart, Krushchev vs. Kennedy, come snocciola Variety. Una dicotomia che non sarebbe fuori luogo in un western, o in un film di Howard Hawks, che non a caso dimostrò il suo amore per le corse d’auto in Red Line 7.000. Laddove, sulla carta, la contrapposizione rischia di diventare troppo schematica e superficiale, Hemsforth e Bruhl lavorano di sfumature, d’intuito, piccole pause, aggiustamenti impercettibili, che danno spessore, imprevedibilità ai personaggi –due grandi interpretazioni, che non hanno nulla della recitazione «da Oscar» che appesantisce tanto cinema dell’autunno.

Nei panni della Modella Suzy Miller, Olivia Wilde sposa Hunt e poi lo lascia per Richard Burton. Pierfrancesco Favino è Clay Regazzoni, star della Ferrari prima dell’arrivo di «Niki».
Per produttività, conoscenza dell’industria, capacità di attraversare generi e formati diversi, Ron Howard è uno dei pochissimi autori contemporanei a lavorare per/nel cinema americano (anche se Rush è in gran parte una produzione del Regno unito) come un regista sotto contratto nella Hollywood classica. In quello spirito, Rush non è solo un film riuscito, ma anche un film raro. Guardando la sua bio e filmografia, Howard farebbe pensare più a un Lauda che al suo spericolato rivale (mancato ad appena 45 anni di infarto e senza aver mai veramente ritentato un’altra Coppa).

Ma nella precisione e nell’arte di Rush batte forte anche il cuore matto di Hunt. Insieme a una traccia di nostalgia (per «quella» Formula Uno, così decisamente glamour, sensuale e irresponsabile, da ipnotizzare anche Cronenberg e Michael Mann) che ci riporta non a un’altra sua regia, ma a un film «su ruote» che Ron Howard interpretò da ragazzo, American Graffiti.