Nel 1976, la prima volta che ho posato il mio piedino in India, erano passati quasi trent’anni dal 1947, anno fondante dell’India indipendente dall’Inghilterra con conseguente divisione in due e formazione dello stato islamico del Pakistan. Eppure continuavano a riecheggiare i nomi di Lord Mountbatten e Lady Mountbatten, di cui sapevo poco e niente ma evocavano in me epoche dense di Storia… Avevo pochi anni (… poi ti volti a guardarli e non li trovi più…) ma, appena toccato il suolo asiatico, i miei occhi si erano accesi. I colori erano fosforescenti, il blu di Klein in pigmento e la curcuma gialla poggiate a cono per terra su una pezza (anch’essa coloratissima) al mercato, i bindi sulla fronte delle donne (nei loro occhi il nero kajal che cola), i sari con le sette pieghe alla vita e che sta in piedi per miracolo (dal mio punto di vista occidentale), la natura selvaggia e tutte quelle mani di bambini che mi toccavano i capelli chiari lunghi fino al sedere e mi trascinavano con loro in giochi semplici, per i vicoli. Molti sapevano l’inglese, non i beggars, ma la gente al Chandni Chowk, la ragazza che vendeva le collane di fiori intrecciati, spesso gelsomini inebrianti, i sikh degli alberghi eleganti che, con una bambina piccola, i miei si trovavano a prediligere.
Spesso erano residenze di maharaja riadattate ad alloggi, le finestre decorate come castelli, i lunghi corridoi di marmo bianco in cui la notte i pipistrelli facevano le gare di velocità, gli animali della giungla impagliati all’entrata, trofei delle vittoriose battute di caccia degli inglesi. Mi ritrovavo, nei pomeriggi a quaranta gradi, mentre i miei schiacciavano un pisolino (che io ho sempre detestato), a vagare negli spazi fantasmatici in cui era passata la Storia. La leggevi negli occhi di chi viveva lì sotto nuove spoglie, nella fatiscenza di una piscina trascurata da anni con la pavimentazione diventata verde di muschio, un tempo ornata da fiori di loto e candele galleggianti in nome di chissà quale divinità da festeggiare. Pensavo molto a Gandhi in quei viaggi, era una delle figure evocate più potenti nel mio immaginario di ragazzina: il suo semplice dothi di garza bianca, i suoi umili pasti di plain rice, la magrezza scheltrica che mi ricordava quella di mio zio Elio al mare. Ma in quei giardini trascurati, in quei cortili dal grandioso passato alle spalle potevo vedere, con l’immaginazione, i 500 servitori con la divisa che rendevano possibile ogni desiderio dei regnanti inglesi, la nobiltà indiana dagli abiti colorati, tessuti e ricamati virtuosamente da qualcuno al di sotto di loro che presenziavano alle cerimonie.

Questo scenario grandioso, pieno dei conflitti del colonialismo, del sistema delle caste, degli estremi della povertà e della sfrenata ricchezza, è contenuto nel polpettone-dramma storico di Gurinder Chadha Viceroy’s house, passato in concorso qui a Berlino. Le voci mi son sembrate discordi. Nel mio piccolo, seduta sulla comoda poltroncina rossa del Berlinale Palast, me lo sono goduta a pieno, commuovendomi per la storia d’amore travagliata ma a lieto fine, scoprendo le strategie politiche tra inglesi (Lord Mountbatten fu l’incaricato a portare a termine l’indipendenza indiana dalla Gran Bretagna e si ritrovò a gestire la divisione di due stati) e una élite di governanti indiani (Nehru, Jinnah e Gandhi) di cui non ero a conoscenza, patendo le migrazioni di milioni di persone (musulmani, indù e sikh) da una parte all’altra dei nuovi confini appena disegnati, che causò un massacro di vittime, tipico delle guerre di religioni. Nonostante tutto ciò, o forse a causa di tutto ciò, darei oro per aver vissuto la vita di Lady Mountbatten.

Fabianasargentini@alice.it