Jazz Visions è il titolo di un piccolo, prezioso libro edito nel luglio scorso in occasione della mostra omonima del fotografo Luca d’Agostino a Portogruaro. Non si tratta di un catalogo ma di una breve sequenza di scatti intercalati da altrettanti sintetici testi del giornalista e critico musicale Flavio Massarutto (che i lettori del manifesto  conoscono per i contributi a ultrasuoni). Immagini e scrittura riflettono attorno al tema – centrale anche nella poetica di un altro apprezzato fotografo italiano, Pino Ninfa – del rapporto tra suono ed immagine, jazz e «visione», musica e storia intesa come narrazione. Precisa Massarutto che le sue brevi note «sono pensieri e riflessioni che non spiegano ma si aggiungono a quanto si vede. In buona parte di quei concerti eravamo insieme; io con il mio taccuino e Luca con la sua macchina fotografica». Il problema, comune, è quello di trasformare in un altro «codice» le vibrazioni della musica cercando di mantenerne il valore evocativo, la potenza semantica, la scintilla visionaria.

Luca d’Agostino non vuole essere considerato un artista ma le sue foto sanno comunque raccontare storie e lo fanno «con sapienza, gusto, precisione». Questa capacità nasce, con ogni probabilità, da un rapporto con il mondo del jazz che è fatto «di ascolto, di condivisione umana, di frequentazione continuativa». Tale complicità favorisce una «percezione ispiratrice» della musica che porta più facilmente a narrare un universo ed a costruirne di ulteriori.

Restano particolarmente impressi gli scatti che riguardano il compositore e direttore d’orchestra «sui generis» Lawrence “Butch” Morris (Biennale Musica, Venezia 2003), il quintetto Mauro Costantini / Daniele D’Agaro / Tobias Delius / Sean Bergin / Davide Ghidoni (I suoni della montagna, Comeglians 2007), il trombettista Tom Harrell (Terni JazzFest, Terni 2001), il trio William Parker / Roy Campbell / Joe McPhee (Ai confini tra Sardegna e Jazz, S.Anna Arresi 2008). Nel primo scatto si coglie il «gesto compositivo» di Morris con il concerto che il musicista afroamericano «plasmava momento dopo momento, suono dopo suono». A S.Stefano di Calgaretto (Comeglians) i jazzisti sono ripresi dal basso, quasi di scorcio con il grande (e compianto) Bergin che ha ceduto ad una momentanea stanchezza. Di Tom Harrell si scorge solo l’ombra a spalle curve, una postura che assume dopo gli assolo quando l’artista (affetto da schizofrenia) sembra perdere di colpo la propria vitalità per afflosciarsi quasi senza vita.

Nel torrido agosto di S.Anna Arresi le sagome di Parker, Campbell e McPhee vengono colte da Luca d’Agostino controluce e «le tre silhouette (…) possiedono (..) la presenza perfetta ed eterna delle statue. Un gruppo scultoreo che celebra una moderna mitologia». È un jazz che genera visioni, che produce storie e scatena l’immaginazione tra arte e vita.
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