Nel panorama della pubblicistica letteraria gli epistolari tra figure intellettuali di rilievo rivestono un fascino a loro modo unico, specie oggi, che il genere appare destinato all’estinzione. Essi fondono gli aspetti intellettuali dell’analisi, della discussione critica, dei giudizi sul contesto storico, con la confidenza privata, le confessioni intime e personali, i colori dei sentimenti.

È QUANTO RITROVIAMO con ricchezza e pienezza nel lavoro di Anna Giuso e Carlo Felice Casula, Salvatore Satta, Lettere a Piero Calamandrei (1939-1956), uscito per il Mulino (pp. 224, euro 20). In questo caso, siamo di fronte a qualcosa di più di una raccolta di lettere. I curatori costruiscono sulle missive tra i due, pubblicate in appendice, due saggi accuratissimi, sia sotto il profilo filologico-documentario che storiografico, a cui aggiungono un denso profilo biografico degli autori a chiusura del libro. Lo scambio tra quelli che Casula definisce «i due maestri del diritto processuale civile» si svolge in una fase drammatica della vita italiana, tra anni Trenta e dopoguerra.

Ambedue hanno posizioni eminenti nell’accademia, Calamandrei rettore all’università di Firenze, Satta prorettore in quella di Trieste, ma essi non sono uniti solo dal mestiere, hanno in comune altre passioni intellettuali: soprattutto l’amore per la letteratura. Satta aveva alle spalle un poco noto passato letterario col romanzo La Veranda, del 1928, con cui aveva partecipato al premio Viareggio. Ma sarebbe apparso scrittore di notevole potenza espressiva solo post mortem, col romanzo pubblicato prima da Cedam e poi da Adelphi, Il giorno del giudizio (1979).

È difficile dar conto in poche righe di tutti i temi che i due curatori fanno emergere dall’epistolario e sviluppano con ricchezza di documentazione. Val la pena almeno ricordare la vicenda di uno strano testo di Satta. Il De profundis, che costituisce un nodo centrale tanto nel saggio della Giuso che in quello di Casula. Si tratta, per dirla con Remo Bodei, che ne curò un’edizione nel 2003, di «un solitario processo sull’ultimo quarto di secolo della storia italiana».

IN REALTÀ, Satta affronta in queste pagine, con partecipazione dolorosa e cupo moralismo, il cedimento al fascismo, gli anni del tracollo dello Stato italiano, la viltà delle nostre classi dirigenti – il tema della «morte della patria» ripreso poi dalla storiografia alla fine del Novecento – traendo ragioni di sconforto sul futuro del Paese. Un testo scritto, con particolare efficacia letteraria, al punto da ricevere attestati di stima, pur nel dissenso politico, anche da parte di Riccardo Bacchelli: «Il Suo libro ha una qualità d’osservazione appassionata altamente umana, acutissima e precisa, ed esposta con forza poetica audace quanto austera».

Era un volume che coglieva con amarezza aspetti sgradevoli dello spirito nazionale degli ultimi decenni, ma che divideva il fronte intellettuale italiano. Durissimo il giudizio di Massimo Mila, per conto dell’editore Einaudi, a cui Satta aveva inviato il dattiloscritto. Dopo avergli ricordato la nessuna frequentazione del campo antifascista, aggiunge: «Lei è il tipico assente; che sconta la sua assenza con il catastrofico pessimismo che Le fa vedere il nostro popolo come un abulico e passivo oggetto di storia».

È Casula a prendere di petto la questione del Satta politico e della sua collocazione di campo, con documentazione e argomentazioni ineccepibili. Difende Satta dalle accuse di essere stato un fascista – smontando, tra l’altro, un preteso scoop da parte di Sergio Luzzatto, che ha confuso un omonimo napoletano con il giurista nuorese – raccontando le sue travagliate vicende accademiche sotto il regime, ricordando la sua elezione, nel 1945, a prorettore dell’Università di Trieste. Carica ricevuta su richiesta degli studenti, con il consenso degli Cnl cittadino.

IL DISCORSO che vi tenne in quell’anno fu molto apprezzato da Calamandrei e da altri antifascisti. «Satta – ricorda Casula – può essere considerato a pieno titolo come afascista, tanto più che egli, pur senza dichiarazioni esplicite in tal senso, del fascismo indubbiamente condivideva quella idea di marca gobettiana, condivisa negli ambienti azionisti, del fascismo-rivelazione delle tare e dei ritardi non solo delle istituzioni, ma anche degli italiani nel loro complesso».

Un giudizio equilibrato, che ha anche il merito di svincolare Satta dalle strumentalizzazioni politico-storiografiche di fine Novecento, riconsegnando all’antifascismo e alla fondazione dell’Italia repubblicana il loro effettivo rilievo storico.