Angélica Gorodischer, nata nel 1928, è morta otto mesi fa a Rosario, città dove è sempre vissuta insieme al marito Sujer (architetto di origine ucraina cui la scrittrice argentina ha «rubato» il cognome per firmare la propria vastissima opera) e dove ha lavorato come bibliotecaria, allevato tre figli e scritto i primi racconti senza avere, almeno all’inizio, «una stanza tutta per sé», tanto da dover riporre ogni giorno sotto il letto la macchina da scrivere. Non ha fatto in tempo, perciò, a vedere l’edizione italiana del suo romanzo Kalpa Imperial, nella bellissima traduzione di Giulia Zavagna per Rina Edizioni (pp. 344, euro 18), corredata dall’approfondita prefazione di Loris Tassi.

SEMBRA QUASI incredibile che questo autentico classico moderno, reso ancora più attuale significativo dal passare del tempo, sia stato così a lungo ignorato dalla nostra editoria, nonostante il viatico autorevole di Ursula K. Le Guin che l’ha proposto (e con notevole successo) ai lettori di lingua inglese, traducendolo lei stessa e accompagnandolo con un giudizio entusiasta. Di Gorodischer, infatti, finora i lettori italiani potevano leggere solo un pugno di racconti noir (Come svoltare nella vita senza farsi ammazzare, Socrates 2008) e qualche novella inserita in antologie collettive. Un’omissione imperdonabile, considerata l’ampiezza e l’importanza del percorso di un’autrice che, dopo aver esordito nel 1964 con un racconto poliziesco (premiato da una giuria di cui faceva parte Rodolfo Walsh), ha continuato a produrre per oltre cinquant’anni opere di grande originalità, rinnovandosi di continuo.

Kalpa imperial (il termine kalpa viene dal sanscrito e si riferisce a un ciclo cosmico infinitamente lungo) è considerato da molti il suo capolavoro, pubblicato in due volumi tra il 1983 e il 1984 e scritto durante la dittatura militare: un romanzo «a cornice», composto da undici capitoli-racconto sul «più grande impero mai esistito», caduto e risorto innumerevoli volte e abitato da una sterminata galleria di personaggi. Un testo caleidoscopico, che grazie alla frammentazione delle trame e all’accumulazione di scene, dettagli, oggetti, visioni, paesaggi e architetture, fa pensare a un Arcimboldo letterario.

Le storie che emergono da lunghe frasi piene di svolte, angoli, enumerazioni e giustapposizioni formano comunque un insieme coerente, il cui filo conduttore, oltre all’esistenza dell’impero, è la voce di narratori orali simili a quelli descritti da Elias Canetti in Le voci di Marrakech (Adelphi, 1983); ogni episodio, tranne l’ultimo, comincia con la formula «Il narratore disse», che inaugura vicende sempre diverse, ricchissime di aneddoti, giudizi, ammonimenti, dicerie, umorismo nero e corpi come campi di battaglia, scivolando avanti e indietro di millenni, secondo una cronologia incerta e variabile.
Il testo è innegabilmente allegorico, perché sotto la ricca e composita superficie di Kalpa Imperial – definito da Le Guin «ferocemente immaginativo e imprevedibile» si possono rintracciare continui riferimenti alla Storia argentina, dalla Conquista agli anni dell’ultima dittatura, cui l’autrice allude in modo così sottile che non per tutti sarà semplice riconoscere una memoria critica così «travestita».

CHIUNQUE, però, potrà cogliere la presenza di temi universali come l’esercizio e la natura del potere, il modo in cui si registra il passato e l’uso che se ne fa, il potere e la funzione sociale della narrazione, il nascere e il tramontare delle culture, il patriarcato e la condizione femminile, le migrazioni, il rapporto tra popolo ed élites, tra libertà e dovere, tra nord e sud del mondo. Gorodischer tesse con pazienza un sontuoso arazzo politico e filosofico e, evitando di formulare teorie o fornire spiegazioni («sono qui per raccontare, non per spiegare», diceva), crea un mondo volutamente incompleto in cui, come si sottolinea nella penultima storia, «non tutto è detto»: la possibilità di immaginare altre condizioni di vita consente di sfuggire a un presente chiuso e meschino e, al momento giusto, anche di sovvertirlo.

Non è facile definire il genere cui appartiene Kalpa Imperial, anche se spesso si attribuisce all’autrice il titolo di Gran Dama della fantascienza di lingua spagnola, alquanto improprio, dato che il romanzo (come altre opere di Gorodischer, del resto) non rispetta le convenzioni della science fiction e prescinde da tecnologia, mondi alieni, società future. E neppure è così facilmente collocabile nel fantasy (non prevede la magia, i poteri soprannaturali, la presenza di creature fatate), o in una tradizione rioplatense che va da Lugones a Borges e da Bioy Casares a Cortázar.

È VERO CHE IN ESERGO Gorodischer ringrazia Tolkien, Andersen e il Calvino di Le città invisibili, lasciandoci capire che intende inscriversi nel fantastico e che si nutre di miti, leggende, fiabe e utopie; bisognerebbe, tuttavia, resistere alla tentazione di imprigionare in un canone (non importa se «alto» o «basso») un’autrice che, in un esercizio di estrema libertà e originalità, mette in discussione ogni modello e fonda la sua pratica letteraria su una radicale ibridazione dei generi, mostrandosi capace di assorbire e metabolizzare influssi di ogni genere, come, per esempio, quello del neobarroco latinoamericano (la cifra di Gorodischer è l’iperbole, con lunghe enumerazioni, sovrabbondanza di dettagli e un erotismo senza censure).

Una chiara intenzione utopica e antiegemonica, legata ai movimenti culturali e sociali degli anni ’60 e ’70, sembra infine collegarla alla narrativa di Ursula Leguin o Joanna Russ, con le quali condivide un tenace femminismo e l’interesse per il superamento della dicotomia maschile-femminile, nonché alle splendide Storie di Nevèrÿon (tradotte da Roberta Rambelli nel 1978 e purtroppo mai riproposte) di Samuel R. Delany, dense di riflessioni sul potere, sul linguaggio e sulla storia della civiltà.
Gorodischer, forse, ha qualcosa in comune con Delany più che con altri, e con lui condivide l’ormai rarissimo dono di un sofisticato umorismo, che, insieme a una scrittura travolgente, fa di Kalpa Imperial una lettura irrinunciabile.