È spiazzante per eccesso di understatement il distico di Nino Taranto, Son nato scemo e morirò cretino. Scritti 1956-2021 (minimum fax, pp. 496, euro 18) che fa da insegna alla ricchissima antologia di Goffredo Fofi ben approntata da Emiliano Morreale che, introducendola, la definisce «un viaggio parziale, in cui l’occhio del curatore si sovrappone alla produzione dell’autore con esplicito arbitrio».
Forse non è questo ma, piuttosto, è la totalità dinamica di un’opera pluridecennale, di continuo divisa fra militanza politica, cinema e letteratura e sempre riaggregata da quegli stessi addendi che negli automatismi percettivi di Fofi si cambiano le parti e vicendevolmente si alimentano, si arricchiscono. Dall’opera di Fofi si potrebbe trarre un numero infinito di antologie, come peraltro dicono le numerose raccolte che costellano la sua bibliografia, per stare alle maggiori da Pasqua di maggio (Marietti 1988), Narrare il Sud (Liguori 1995), Strade maestre. Ritratti di scrittori italiani (Donzelli 1996) a Elogio della disobbedienza civile (Nottetempo 2015) e L’oppio del popolo (Eleuthera 2019).

NON ESISTE IN ITALIA, lontanamente, una figura come la sua e una voce critica così riconoscibile ad apertura di pagina. Non è un fatto di erudizione (che comunque in materia cinematografica realizza l’onniscienza) e nemmeno o soltanto è un particolare conio linguistico-stilistico (perché la parola di Fofi è spiccia, ficcante, mai appagata dal suo stesso ritmo) ma semmai si tratta del concomitare e spesso del precipitare sulla pagina di passione e conoscenza o, se si vuole, volta a volta del rinvenimento o meno di una fraternità. Quanto a ciò lo scritto inaugurale dell’antologia, un testo del ’56 dedicato alla sua esperienza di Partinico e alla figura di Danilo Dolci, ha valore fondativo e, retrospettivamente, prospettico.

Che cosa chiede infatti alla pagina di un libro, a una sequenza cinematografica o a un’espressione della vita tout court, Goffredo Fofi? C’è da presumere esiga una testimonianza piena, complessa, della umanità o, sia detto in altri termini, una onesta e singolare declinazione di essa. Prima che un dato culturale e mediato, gli interessa quel nucleo ribollente e fecondo, lo stesso che, ai suoi occhi, una piccola borghesia ormai planetaria tende ad asfissiare e adulterare o comunque a standardizzare come si trattasse di qualcosa da proporre à la carte. Proprio perché conosce il cinema, Fofi sa intendere istantaneamente il valore di un artificio separando, come un tempo si diceva, quanto è necessariamente devoluto al valore di scambio e quanto invece rimane disponibile al valore d’uso: e non è un caso che da alcuni decenni la sua attenzione vada ad espressioni tipiche dell’industria culturale ma ricche di figure inventive quali il fumetto, l’illustrazione, il graphic novel; e osserva Morreale: «Fofi, che ha scritto davvero di tutto, non appare mai, curiosamente, un ‘tuttologo’ – forse, semmai, un ‘tuttofilo’, un intellettuale/anti-intellettuale, curioso di tutto».

IN OGNI CASO I MAESTRI e compagni di via che ha riconosciuto e frequentato parlano per lui, fra gli altri il già citato Danilo Dolci, Aldo Capitini, Ada Gobetti, Raniero Panzieri, Piegiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Elsa Morante unitamente alle figure di pedagogisti e testimoni del proprio tempo quali Lorenzo Milani e Paulo Freire, cui andrebbe aggiunta, almeno virtualmente, la figura di Elio Vittorini, grande promotore di riviste e comunità intellettuali. Sono gruppi minoritari senza essere perciò elitari o avanguardistici del tipo secolare e militarizzato come Fofi spiegò a suo tempo nella autobiografia intitolata La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze (a cura di Oreste Pivetta, Laterza 2009) e in un’altra delle sue raccolte maggiori, Le nozze coi fichi secchi. Storie di un’altra Italia (l’ancora del mediterraneo, 1999).

La tempra di Fofi è di un cristiano di base la cui percezione delle cose e dei segni è d’ordine creaturale e dunque portata, al di là dell’artificio, alla nuda espressione di una personale verità, che appunto è la verità dell’uomo in quanto tale, legata a valori essenziali, cioè i principi di libertà e di eguaglianza fra esseri umani: la natura meridiana e mediterranea della sua sensiblerie dicono che il suo autore è da sempre Albert Camus, lo scrittore libertario per eccellenza.

LA QUANTITÀ DI RIVISTE e aggregazioni cui ha dato vita o cui ha collaborato (da Quaderni piacentini e Ombre rosse a Linea d’ombra, Lo Straniero e l’attuale Gli Asini), il fatto stesso che Fofi sia stato riconosciuto fra i nomi del ’68 e che in prima persona egli sia pensato sempre en situation, tutto questo non adultera la natura di un militante la cui inclinazione è stata sempre e innanzitutto morale (e in più di un caso duramente moralistica, e qui si pensi a un libro come Il cinema italiano. Servi e padroni, Feltrinelli 1971) prima che una vocazione politica, men che meno della cosiddetta politique politicienne. E basterebbe evocare i due titoli maggiori della sua sterminata attività di critico cinematografico, due volumi biografici (Totò, Samonà e Savelli 1972; Alberto Sordi, l’Italia in bianco e nero, Mondadori 2004) che costituiscono una critica radicale della identità italiana e vanno insieme con la inchiesta pionieristica, L’immigrazione meridionale a Torino (Feltrinelli 1963, poi Aragno 2009), un cross country opportunamente selezionato da Morreale che valicava i limiti della sociologia accademica e metteva in discussione gli strumenti analitici della sinistra tradizionale.

Cospicua nella antologia di minimum fax è anche la scelta dei testi di critica letteraria, a partire dai ricordi (perché Fofi è un maestro del necrologio e del bilancio biobibliografico) e da alcune recensioni memorabili come il plauso a Cent’anni di solitudine (’68), la lettura appassionata de La Storia (’75) e dell’Ernesto (’76), magnifico lascito di Saba, e la stroncatura viceversa del Vogliamo tutto (’72) di Nanni Balestrini: netta è tuttavia la sensazione che, riguardo alla letteratura inventiva, l’interesse di Fofi si sia progressivamente affievolito dopo la cessazione di Linea d’ombra (1983-’95) mentre si è affermato l’interesse per una saggistica di ascendente sociale come rivela del resto la parabola di alcuni suoi collaboratori e, su tutti, l’indimenticabile Alessandro Leogrande.

ORA, VALICATE le cinquecento pagine dell’antologia (e le migliaia disperse nella centrifuga pluridecennale di Fofi) viene spontanea la domanda: che cosa davvero le tiene insieme? Che cosa ci induce a riconoscere uno stile che manca dei segni espliciti o esibiti dello stile? Oggi si dice genericamente «empatia» ma nel caso di Fofi si dovrebbe piuttosto parlare, e secondo la traccia etimologica, di umana «simpatia» che significa capacità di mettere in comune la sofferenza e idealmente di spartirla. Perciò è davvero opportuna la scelta di chiudere l’antologia con «Il primo metrò» (un testo del 2007 già raccolto in Zone grigie. Conformismo e viltà nell’Italia di oggi, Donzelli 2011), quattro stupende paginette su una esperienza di condivisione, la metropolitana di Roma.

L’atto di osservare e di rammemorare sono hic et nunc una cosa sola e in quell’ipogeo della postmodernità l’autore rivede il paese che fu suo nei volti degli stranieri silenziosi, straordinariamente dignitosi, i quali si avviano al lavoro, di solito un lavoro umile e necessario: «Hanno volti segnati dalla fatica e dall’esperienza come li avevano i proletari italiani e di ieri. Ho sempre avuto una sorta di passione per i volti, e rimpiango la scomparsa, nella pittura, della grande arte del ritratto, che resiste a volte in fotografia. Da giovane mi perdevo a scrutare i volti delle persone che incrociavo sugli autobus, nelle strade, nei mercati: cercavo di indovinare chi fossero, che vita avessero, quali desideri. Quasi sempre i volti mi ‘parlavano’, li si poteva leggere e leggere in loro l’Italia. Le facce dei metrò dell’alba non sono di romeni o afghani, di serbi o di italiani, sono di proletari». È l’universo creaturale, questo, che dà senso e destinazione alla parola di Goffredo Fofi.

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SCHEDA. Quei giovani «Cari agli dèi», morti presto per allietare l’Olimpo, diceva Menandro

Per le edizioni e/o è uscito di Goffredo Fofi «Cari agli dei» (pp. 160, euro 15). È una galleria di indimenticati, giovani che erano pronti a cambiare il mondo, ma che una storia ingiusta ha cancellato, facendoli evaporare dalla vita. L’autore ha voluto ricordarne alcuni, non sempre noti ma comunque esemplari di una vicenda in cui il privato e il pubblico si sono intrecciati. Seguendo Menandro e l’antica convinzione che gli dèi prendono con sé i giovani che possano allietare la loro noiosa esistenza sull’Olimpo, Fofi evoca quelle «morti precoci», proponendo una galleria di ritratti che vanno dal tempo della guerra passando per il Sessantotto e le uccisioni per mano dei fascisti, delle forze dell’ordine, della mafia, coinvolgendo diverse città, da Palermo a Napoli a Milano e Parigi. Non solo giovanissimi, anche ritratti di chi avrebbe ancora avuto molto da dare agli altri, fossero amici o comunità sociali – ogni capitolo ha un nome e la sua storia raccontata. «I morti non muoiono, sono qui tra noi anche se ten-
diamo a dimenticarli per la paura di doverli presto raggiungere».