Pirandello e il suo teatro sembrano tornare centrali nei nostri teatri di tradizione, dopo l’overdose spesso «di maniera» degli scorsi decenni. Grazie al lavoro di Massimo Castri e più recentemente di Luca Ronconi, il repertorio pirandelliano sembra scrollarsi di dosso la polvere delle formule (del tipo «il teatro nel teatro») o l’ozioso interrogativo su quale sia la realtà «vera» tra due possibili ed equivalenti soluzioni, seppur di segno opposto. Tolti di mezzo questi ammennicoli ornamentali che ancora si fissavano in sospensioni cosmiche, immortalate ai tempi di Romolo Valli e Giorgio De Lullo (che hanno costituito negli anni 60 una sorta di canone rimasto a lungo irremovibile), c’è spazio oggi per reinterrogare quei testi e il loro autore, i suoi fantasmi e le sue esasperazioni. Così che quel teatro si riveli, pur nelle sue forme e nelle sue formule scritte, «torbido» e godibile, in grado non solo di restituirci una certa provincia e una certa mentalità, ma anche di rintracciare in quella sua lente deformata elementi di senso e di comportamento che ancora ci riguardano e ci toccano.

Il preambolo vale per la bella (anzi elegantissima) versione di Non si sa come secondo Tiezzi e Lombardi che ha da poco debuttato, come anche per Il giuoco delle parti che Umberto Orsini con la propria compagnia ha appena riportato in scena (all’Eliseo, ancora per due settimane). Non prima di aver sbollito l’eventuale noia pregiudiziale per l’argomento da cui la commedia molto pirandellianamente prende origine: sì, motore del racconto (anzi di una delle Novelle per un anno da cui nasce il testo teatrale) è proprio la solita, ossessiva «storia di corna», proprio come anche in Non si sa come. Ma è solo l’antefatto, già avvenuto e ratificato prima dell’inizio, e che ha causato la formazione e la dislocazione del triangolo protagonista. Il «bello» viene dopo, per i comportamenti, i ragionamenti e i gesti anche criminosi (fino al delitto di procurata morte dell’altro) cui la vicenda approda. Ma conviene andar per ordine.

Umberto Orsini era stato da «giovane» proprio nell’edizione Valli-De Lullo; più recentemente aveva riaffrontato quel testo con la regia di Lavia. Oggi che sta per diventare un patriarca nobile degli attori italiani, rientra ancora da protagonista nel Giuoco, e come usa fare da qualche anno, scegliendo un regista di nuova generazione. Dopo le esperienze con Delbono, De Rosa, Longhi e Babina, ha scelto questa volta Roberto Valerio. E giocando insieme sul desiderio di aprire squarci nuovi sul testo, ma anche per volerne esplicitare un proprio punto di vista, rovescia il racconto. Così che Leone Gala, il suo personaggio protagonista, mostra fin dall’inizio di essere lui il sopravvissuto al delitto che ha risolto il tradimento. Non che fosse stata una scoperta improvvisa: anzi «l’amante» della bella moglie era entrato nella vita strutturata di questa, solo dopo che la coppia si era di fatto separata: lui se ne era andato a vivere altrove, garantendo la presenza nella casa comune solo per mezz’ora al giorno, per la pubblica onorabilità.

Dentro la grande struttura modernista, che a tratti pare vetrocemento, costruita da Maurizio Balò in modo che se ne possa stare dentro e fuori, si può così vedere il protagonista su una sedia a rotelle accudito da personale clinico come fosse in un asilo senile, oppure padrone a suo agio nella casa dove viene ordito l’inganno reciproco, da parte dei tre personaggi. Per prima la moglie, che lamenta un’aggressione sessuale da parte di certi signori diretti da una prostituta che esercita nello stesso suo caseggiato, e che hanno sbagliato appartamento: Alvia Reale, bravissima, appare in un primo momento con le moine di una gran diva del muto (del resto la commedia nacque nel 1918), per poi trasformare quelle pose di stile nella commedia mendace di mogliettina stufa che ha volutamente costruito il suo lamento da Lucrezia violata. L’amante, da parte sua, pensa di intrappolare l’ingombrante marito convincendolo a lavare in duello l’onta coniugale (con la solidità solita Michele Di Mauro crea l’ipocrisia vigliacca del parassita sessuale). Ma Leone Gala, alias un grande Umberto Orsini, con un colpo di teatro, e d’intelletto, costringe proprio l’amante, in quanto «utilizzatore finale» effettivo delle grazie profanate di lei, a affrontare il duello, cui evidentemente non sopravviverà. E quel fasullo onore borghese di cui si ricostituisce l’apparenza, rimettendo a posto le «parti del giuoco», lascerà svuotati e demotivati i superstiti, sia la moglie infedele che il marito beffatore, che potrà ricominciare a sbattere uova continuando ad assecondare la passione strumentale per la cucina. E assieme alle creme alla coque, Pirandello torna a produrre quei gas velenosi del teatro borghese.