Che cosa si voleva dire quando, pochi decenni fa, si decretava la fine delle grandi narrazioni? Come mai oggi invece c’è qualche governante che parla, appunto, e un po’ per tutto, di narrazione? E quanto conta l’autonarrazione nel successo del diario personale di Facebook che molti uomini e donne, quasi coattivamente, negli ultimi anni ha cominciato multimedialmente a redigere? Quella della narrazione è categoria che invade capillarmente il nostro mondo, perché riguarda l’essere – che è necessariamente nel tempo – e l’organizzazione più o meno razionalizzante di questo essere nel tempo: riguarda cioè la stessa vita così come la concepiamo. Tuttavia, a tanta larghezza d’impiego, non corrisponde un interesse teorico commisurato, che impedisca la banalizzazione del concetto, e viceversa ne indaghi le pieghe.

Lo stile dell’enunciazione

Questo, s’intende, vale per l’Italia: che si distingue, oggi come in passato, per una notevole carenza di narratologi (e le motivazioni del resto non mancano: vedi alle voci De Sanctis e Croce) oltre che di traduzioni dei lavori che a livello internazionale continuano ad essere prodotte anche dopo il classico Genette. A Montréal, alla fine degli anni Ottanta, lo storico del cinema André Gaudreault ha pubblicato un’opera di teoria dell’enunciazione cinematografica che, preliminarmente, ridiscute i fondamenti della narratologia da Platone a Genette: opera sì disponibile in italiano, ma tradotta, non benissimo, da un editore (Lindau) che gode di non sufficiente autorevolezza per una qualche visibilità in ambito accademico.

In area germanica, studiosi come Franz Karl Stanzel (attivo fin dagli anni Cinquanta) e la sua allieva Monika Fludernik hanno sviluppato teorie della narrazione da noi sconosciute: studi sul romanzo pur ottimi (quelli di Stefano Calabrese, Federico Bertoni, Guido Mazzoni, per esempio, come anche il fondamentale Lo stile semplice di Enrico Testa) non vi fanno cenno, mentre il rimando a Gérard Genette, o almeno al suo vocabolario, rimane d’obbligo.

A un simile orizzonte può indicare alcune coordinate correttive l’ultimo lavoro di Paolo Giovanetti, Il racconto. Letteratura, cinema, televisione (Carocci, pp. 311, euro 29), saggio e manuale universitario insieme, frutto incrociato di un minuzioso studio della materia (con particolare attenzione ai citati Stanzel e Gaudreault) e della consuetudine didattica che l’autore – esperto di metrica – ha da qualche anno con studenti di cinema e televisione; dai quali ha ricavato, tra le altre cose, la conferma della necessità di ampliare lo spettro dell’indagine narratologica al di là delle non più egemoni forme letterarie: non tanto sulla scorta di precedenti quali l’ormai storico tentativo di Seymour Chatman (che, nell’affrontare «la struttura narrativa nel romanzo e nel film» – come da sottotitolo a Storia e discorso, del 1978 –, non teneva in debito conto le ricadute teoriche della radicale diversità dei media considerati), quanto intercettando l’influenza del medium filmico nella produzione di teorie strettamente letterarie come quella dell’olandese Mieke Bal, che molto insiste sull’intreccio di sguardi (qualcuno focalizza, qualcosa è focalizzato) che dà forma al testo; e, con prospettiva opposta, ragionando su quella notevole «preparazione» del racconto cinematografico che furono i romanzo di Flaubert, e poi naturalista, e poi verista, dove si imponeva una situazione narrativa figurale, realizzata attraverso una enunciazione deitticamente indecidibile: chi parla? da dove parla?

Perché uno dei problemi fondamentali è quello che Giovannetti sottolinea con forza, rimandando al semiologo Christian Metz: l’istanza narrativa filmica non è riconducibile a un soggetto enunciatore unitario o se non altro individuabile. Ciò costituisce, anzi, il problema, che l’epistemologia ha buttato sul tavolo da oltre un secolo e con cui la letteratura e le altre arti ancora si confrontano; e che, appunto, il medium filmico ripropone come questione di base non riservata a qualche attardato (ponendo che lo sia) scrittore d’avanguardia o, come si dice da qualche decennio, di ricerca.

L’economia dgli elementi

Non stupirà perciò trovare, in limine, per una provvisoria definizione di «racconto» – e per mostrare quanto inadeguato sia il concetto che comunemente ne abbiamo: una confusione tutta da risolvere tra genere del discorso e genere letterario –, incontrare tanto la Linea d’ombra di Conrad quanto l’episodio pilota di Desperate Housewives. Né mancheranno queste esemplificazioni dai diseguali valori estetici (ma per Giovannetti le questioni assiologiche hanno poco momento se il punto è condurre una riflessione teorica) di essere messe a sistema con una ricognizione tecnica sul cosiddetto «enunciato narrativo minimo», da E.M. Forster a Tzvetan Todorov, da Jurij Lotman alla Fludernik: la quale ricognizione, attraverso un minimalismo sempre crescente (approdante alle posizioni cognitiviste, per le quali il lettore attiva una serie di frame e di script di varia origine che danno forma al racconto anche con la massima economia di elementi), suggerisce – così pare a chi scrive qui: basta che vi sia, anche immobile, anche in still, un soggetto individuo (cioè non un astratto, non una forma ideale: e questo sarebbe nodo da intrecciare con la responsabilità non individuabile di certe narrazioni), ed ecco darsi la possibilità (la necessità?) di immaginarne un intorno anche ridottissimo di storia – suggerisce che tutto, o quasi, può essere racconto.