L’annunciata cancellazione dela prima di Ernani di Verdi (e di tutte le sue repliche) diretta da Riccardo Muti come inaugurazione della nuova stagione dell’Opera di Roma, apre questioni inntrincate, un vero maledetto imbroglio per dirla con Germi che del resto si ispirava a Gadda e al suo Pasticciaccio di via Merulana. Un «imbroglio» perché ovviamente lo sciopero è un diritto innegabile per ogni lavoratore al mondo, e nello stesso tempo però questo «inciampo» rischia di innescare un processo a catena dalle conseguenze inimmaginabili.

Non solo per il pubblico dell’opera, sempre più striminzito a Roma e identificabile come emblema di colore in Silvana Pampanini e nelle signore sue amiche, che vanno al Costanzi con un rumoroso fischietto nella borsetta di coccodrillo; neanche tanto per i cittadini romani che quella sala raramente frequentano; e neanche nei melomani di tutto il paese che non hanno mai riconosciuto all’ente romano alcun appeal né merito, finché non è arrivato il genio focoso di Muti a impreziosirlo. Meno che meno ai politici, che mai si occupano di cultura, e preferiscono un milione di volte il Bagaglino o un tolsciò a quella musica d’altri tempi e ai quei cantanti che urlano…

Il dramma di questi giorni dell’Opera è che semplicemente rischia ora di scomparire: la battaglia di resistenza contro i bilanci che si prosciugano e magari l’arrivo di un commissario che quei conti cominci a controllarli dopo anni di spericolata gestione alemanna, terrorizza tutti al punto di arrivare a questa sorta di suicidio annunciato. L’amministrazione precedente ha continuato a garantire i rifornimenti a un luogo pieno di suoi raccomandati (altrimenti perché ripianare militarmente ogni volta quei deficit da paura?), anche se di destra, anche estrema, è sempre stato lo zoccolo duro del teatro.

E tutto questo (che ora si scopre aver raggiunto l’esposizione surreale di 35 milioni di euro) non ha indotto ad alcuna protesta, anche non eclatante come quella prevista per domani, da parte di alcun sindacato, né «autonomo» né la Cgil. La crisi purtroppo ha eroso anche solo la possibilità di «promettere» regalie, aggiustamenti e rimpolpamenti di bilancio. È la situazione dell’intero paese che è così, figurarsi quella dello spettacolo. Il ministro Bray, che a differenza di molti suoi colleghi non si ferma alle chiacchiere, a forza di girare e conoscere i territori che deve amministrare, ha preparato il provvedimento che da lui prende nome, e che tenta di tagliare tutte le mascherature, i parassitismi, le mediazioni (e se non suonasse troppo forte «i favori d’obbligo») che una politica cieca e rapace ha lasciato crescere a proprio profitto dentro molte istituzioni culturali.

Ora che di soldi non ce n’è proprio più, il caso dell’Opera romana diventa l’emblematico pasticciaccio, anche per il facile quanto effimero riscontro che avrà sui mass media. Il fatto che gli orchestrali vogliano l’elargizione immediata e «a preventivo» del contributo comunale, ma contemporaneamente rifiutino radicalmente la possibilità della nomina di un commissario alla guida del teatro (che vada a indagare sulle perdite accumulate, e ancor più sulle assunzioni senza regole così diffuse nella Roma del quinquennio appena trascorso), non li accomuna certo ai tranvieri genovesi, che della loro aspra vertenza hanno fatto un coinvolgente esempio nazionale.

C’è il rischio piuttosto che il loro sciopero, sacrosanto come tutti gli scioperi, finisca per suonare in sintonia con quanto accade in Campidoglio, dove una destra manesca prende a gomitate in faccia il sindaco per evitare nei tempi di legge l’approvazione del bilancio, e favorire così l’arrivo – guarda un po’ – di un commissario per la sola gestione degli affari correnti, e quindi possa metter fine alle pentole maleodoranti che si vanno scoperchiando da tutte le municipalizzate romane, evidentemente tutte avvelenate dalla bassa cucina precedente.

Non è fantapolitica, ma semplice coincidenza dei fatti. La prematura scomparsa di Ernani dal cartellone, senza neanche i tre suoni di corno che in Verdi ne annunciano il destino, suona triste. Perché anche l’onesta fedeltà ai principi, come per il bandito liberatore, può portare alla sconfitta (e nel suo caso alla morte). E non è quello che vogliono i cittadini per l’Opera di Roma.