La privazione della libertà ha in sé qualcosa di innaturale. È evidentemente innaturale costringere una persona alla reclusione forzata. Oltre a essere innaturale è anche ingiusto, irragionevole, irrazionale, improduttivo, inefficiente, anti-moderno? Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta non si limitano a darne una risposta in Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Postfazione di Gustavo Zagrebelsky, Chiarelettere) ma vanno oltre e delineano una piattaforma pragmatica di abolizione del carcere. Sottraggono la prospettiva abolizionista al campo semantico dell’utopia e la inseriscono nel solco riformista del diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta dunque provano a smantellare pezzo a pezzo l’orgia repressivo-carceraria speranzosi che attraverso un’operazione erosiva di tutte le asperità punitive si possa giungere all’abolizione del carcere stesso. Abolisci l’ergastolo oggi, cancella le misure di sicurezza domani e pian piano del carcere rimarrà ben poco.

L’abolizione del carcere viene così sottratta al campo degli abolizionisti del diritto penale e inserita all’interno del movimento per le libertà civili. L’abolizionismo – si racconta nel libro- negli ultimi due secoli ha vinto battaglie storiche il cui esito positivo era inimmaginabile a quei tempi: si pensi alle lotte contro la schiavitù, la pena di morte, l’apartheid. Guardando alla più recente storia italiana vanno ricordate la chiusura dei manicomi civili e degli ospedali psichiatrici giudiziari. Quest’ultima è vicenda dei giorni scorsi. Pertanto l’abolizione delle carceri diventa compatibile con il paradigma del diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli, che ci ha insegnato che vanno minimizzati i reati e minimizzate le pene allo scopo di ridurre l’immissione di violenza nella società. Per gli autori, il punto è la modifica del sistema delle sanzioni, inventarne di altre e nuove nella consapevolezza che il carcere è un prodotto della modernità e che la post-modernità potrebbe consegnarci pene meno afflittive, meno disumane e più utili. È questa una prospettiva umanistica (con influenze filosofico utilitaristiche) di tipo social-liberale del tutto compatibile con l’attuale organizzazione del potere.

Alle domande sul perché, chi e come punire non si può rispondere in quanto esperti della micro-disciplina penalistica. Il diritto penale attiene alle scelte di democrazia di un Paese. Quelle domande richiedono risposte di tipo olistico. Il diritto penale ha a che fare con la sovranità dello Stato, con il modello sociale, fiscale ed economico prescelto, con la religione e l’antropologia. Non c’è ambito come quello penale e penitenziario dove gli Stati rivendicano in modo così forte la loro sovranità ritenendola intangibile. Quando il banchiere svizzero Jean-Jacques Gautier, nella metà degli anni Settanta del secolo scorso, decise di sostenere il movimento anti-tortura e a seguire la nascita di un organismo europeo istituzionale che avesse compiti ispettivi di tutti i luoghi di detenzione, le resistenze degli Stati furono tutte nel nome delle proprie prerogative e della propria sovranità punitiva. Ogni prospettiva abolizionista non può non tenere conto del rapporto tra pena e sovranità statuale. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta non mettono dunque in discussione il diritto di punire dello Stato sovrano ma le modalità della punizione stessa.

Quarant’anni fa, mentre in Italia si approvava in Parlamento la prima legge penitenziaria dell’era repubblicana, alcuni criminologi del nord-Europa mettevano invece in discussione lo stesso diritto di punire sostenendo l’illegittimità del diritto penale. Louk Houlsman e Nils Christie sono considerati i padri fondatori dell’abolizionismo penale che non è abolizione del carcere ma rinuncia all’intero sistema sanzionatorio criminale. «Il crimine non esiste» scriveva Christie, è un artificio umano. Quella proposta, nel momento stesso in cui metteva in discussione l’ontologia del diritto di punire da parte dello Stato, si andava a configurare come un’opzione politica (e non solo giuridica) anti-statuale con influenze marxiste, cristiane e anarchiche. Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, invece, ritengono che si possa abolire il carcere senza mettere in discussione l’attuale assetto politico-istituzionale.

Su un punto però vorrei aprire un dialogo con gli autori. I risultati abolizionisti nel campo delle libertà civili sono sempre stato il frutto della lotta politica di movimenti sociali e politici. Alle tante citazioni cinematografiche presenti nel libro ne aggiungo una. In 12 anni schiavo Steve McQueen ci racconta i dodici anni che Solomon Northup visse in condizione di schiavitù prima di diventare un’icona del movimento anti-schiavista. Oggi non esiste un vero e proprio movimento anti-carcerario dentro cui collocare la forza di una storia o di una biografia. E non esiste forse perché c’è il timore che l’abolizione del carcere rischi di portare – in mancanza di una società coesa e solidale – a un ritorno alla vendetta privata. Sono certo che non mancherà da parte degli autori occasione per una loro risposta. Il libro si apre con una citazione di Belen Rodriguez che a parole sue spiega l’inutilità della pena carceraria nei confronti di Fabrizio Corona. Io ricordo agli autori invece che Franco Califano ha scritto molti dei suoi testi in carcere e che lo stesso Califano ha detto in un’intervista che è «meglio il carcere del collegio». Dunque il carcere avrebbe una sua utilità. Tra Belen e il Califfo ai lettori l’ardua scelta.